LA RESPONSABILITA’ RENDE LIBERI

Si fa un gran parlare del referendum del 4 dicembre, purtroppo però in Italia il dibattito politico, o si riduce a puro slogan con le clack plaudenti contrapposte, e gli studi televisivi trasformati a surrogato della piazza. Oppure, ed è questo il caso attuale e non meno deviante, quel dibattito diventa puro tecnicismo per addetti ai lavori, non meno manipolabile dai demagoghi di turno. Così ogni cittadino, in questo strano autunno di attesa, sta cercando di farsi un’opinione su come cambierà il processo legislativo: le competenze della nuova camera e del nuovo senato, per non parlare del check and balance tra i due nuovi organi e gli altri poteri dello stato, inoltre, come se non bastasse, cambia anche il rapporto tra stato e regione, ridisegnando l’equilibro tra le prerogative dello stato e l’autonomia degli enti locali. Così via alla ridda di sfumature tra centralisti e federalisti, quasi che ai cittadini, per vivere in democrazia, fosse richiesta la competenza di un processo così complesso e specialistico quale l’atto legislativo. Chi s’era illuso in questo modo di rendere il dibattito politico più civile, più maturo, rimarrà presto deluso dal grado di demagogia a cui i tecnicismi si prestano. Difatti al semplificatore di turno, vien da dire: perché delegare quella competenza così importante e per questo piene di tentazioni corruttrici ad altri? D’altronde grazie a internet ognuno può all’istante con un clic discettare di tutto, allora al diavolo la rappresentanza come teorizza i 5 stelle novelli Rousseau, torni la sovranità al popolo! Ma non finisce qui, non maggior fortuna toccherà alla discussione sul cosiddetto “combinato disposto”, e ai presunti famigerati effetti attribuiti alla legge elettorale sul nuovo sistema legislativo. Di nuovo interminabili disquisizioni tra proporzionale e maggioritario, con preferenze o di collegio, a turno unico o a doppio turno ect. Ed è facile per i nostri Jaques le Bonhomme a 5 stelle insorgere: “ma come in democrazia ogni testa un voto, basta contarli e distribuirli, chissà cosa nascondono quelle formule, non vorrete di nuovo cadere sotto il tacco di un novello tiranno stivaluto, non più romagnolo, magari toscano e altrettanto sbruffone e prepotente?” Non è difficile immaginare cosa risponderà il popolo. Viene in mente il teologo riformatore Jan Hus, e la sua proverbiale esclamazione: oh sancta simplicitas! quando sul rogo in cui lo aveva condannato santa romana chiesa, troppo tardi s’avvide ch’era la pia vecchietta per cui combatteva a portare la legna che lo arrostiva. Se il nostro Premier vuole evitare il “rogo mediatico”, cambi al più presto il registro del suo messaggio politico. Semplice non è sinonimo di facile, rispondere alla demagogia pentastellata o leghista con non meno demagogiche promesse di tagli ai costi della politica è un errore. Certo la riduzione dei costi c’è ed è bene sottolinearla, ma non è quello il cuore della riforma, anzi la riduzione dei costi è un effetto della medesima, non la causa. Occorre invece prendere atto di quanto il populismo imperante, che ha inquinato il dibattito politico degli ultimi venticinque anni, sia il risultato della crisi costituzionale italiana. Nata sulle ceneri del fascismo la nostra costituzione ne ha introiettato le paure, il risultato è stato: una forte riduzione dei poteri del governo, da cui la sequela di esecutivi alla media di un all’anno; compensati da una abnorme crescita dei corpi intermedi: associazioni, partiti, sindacata, a cui i cittadini delegavano le decisioni con spirito più fideistico e di appartenenza che ben ragionato. Quando quel sistema è crollato per la natura consociativa e corruttiva di quel patto costituzionale, non sono spariti solo quei corpi intermedi, ma con loro anche la capacità di decidere del governo e di esercizio delle proprie prerogative, attraverso un processo di formazione dell’opinione pubblica in grado di supportare il peso implicito in ogni decisione politica. La riforma costituzionale e la legge elettorale fanno due cose: la prima abolisce il bicameralismo paritario e distingue meglio le competenze tra centro e periferia, permettendo al futuro governo il pieno esercizio del proprio mandato. Mentre la nuova legge elettorale, consegna ai cittadini la facoltà di indicare col voto chi governa. Chi garantisce che il governo non abusi del suo potere e che i cittadini scelgano con equilibrio, insorgono i detrattori più ragionevoli? Nessuno, ed è questo il pregio della riforma! Certo i check and balance esistono, ma nessun potere di controllo potrà mai impedire errori e pure gravi. Per crescere come individui e comunità esiste un solo modo: “trial and error”, proprio quello che è mancato nei settant’anni di storia repubblicana viziati dal trauma del fascismo e della guerra civile. Non si può essere liberi senza possibilità di errore, e non è possibile accrescere la libertà senza un’equivalente assunzione di responsabilità. Per sperare in una piena vittoria del sì, bisogna però ben distinguere tra chi dice no, e non stancarsi di tendere la mano ai tanti disillusi cittadini schierati in quel fronte. Nel variegato fronte del no, a parte uno sparuto numero di professoroni che sognano un ritorno ai fasti della prima repubblica e alla loro centralità di “numi tutelare della conoscenza”, la cui influenza è decisamente sopravvalutata, esistono due fronti: la palude e i rancorosi. A proposito di quest’ultimi, proprio ieri ho letto il pezzo sul Corriere del senatore Monti sui motivi che lo hanno indotto a schierarsi per il no, lo dico da elettore nelle ultime elezioni del movimento guidato dall’ex Premier, spiace vedere usare male tanta intelligenza da parte di persone indubbiamente brillanti, e lo stesso discorso vale per D’Alema che in passato ho a lungo apprezzato. Capisco umanamente la delusione di vedersi porre ai margini della vita pubblica, nonostante i meriti acquisiti in carriera superino i demeriti; capisco anche l’amarezza per essere stati scartati dall’attuale Premier in ruoli a loro confacenti, a favore di persone meno capaci; ma senza rottamazione non si esce dal populismo che ammorba il dibattito nel nostro paese. Non sempre la vita è giusta, forse arriverà un tempo in cui si potrà separa il grano dal loglio, per ora verso i rancorosi non resta che l’oblio. Più articolato deve essere il rapporto con l’altro parte di paese, la palude, non solo perché è decisamente più grande, e i numeri in democrazia contano. Certo, nella palude c’è e ci sarà sempre una parte di paese che ci sguazza e si nutre del caos politico istituzionale: un pezzo di informazione, un pezzo di economia e naturalmente di personale politico e contorno burocratico, l’unico modo per ridurre quel bacino è far funzionare meglio i rispettivi mercati, compreso quello politico attraverso la riforma. Vi è però una parte ben più grande della palude composta da cittadini normali, vissuti e cresciuti comprensibilmente lontani da una politica che li avrebbe voluti “eterni bambini”, tutt’al più “adolescenti tifosi”, oggi ostaggio di una crisi che non capiscono, a cui occorre tendere la mano senza stancarsi, neanche di fronte al loro ritroso disprezzo, o al non meno fastidioso dileggio. Non so dire se il 4 dicembre prevarrà il sì o il no, sono comunque certo che quel patrimonio politico di sì, ben più consistente dello sparuto pugno di intellettuali che all’indomani della Liberazione avrebbe voluto una costituzione più coraggiosa, non può essere sperperato. Se le dimissioni dopo la sconfitta non sono in discussione, non lo può essere di meno la continuazione di un progetto politico che sogna un paese diverso. Matteo Renzi e la classe dirigente che intorno a questa battaglia politica si è formata – dipinta a torto come inadeguata da una certa stampa che alla lotta delle idee preferisce l’attacco ad hominem – ha invece le capacità, il dovere morale e dopo il referendum anche i numeri, per condurre quelle idee fino alla vittoria. Questi non sono certo tempi per novelli Cincinnato!

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