1.1 Primo intermezzo epistemologico
Per cogliere appieno la novità di questo approccio e i profondi cambiamenti che apporterà praticamente in ogni campo del sapere, è opportuno tracciare a grandi linee la rivoluzione epistemologica da cui trae origine il liberalismo. Dobbiamo chiederci: cosa posso conoscere e come posso distinguere il vero dal falso. David Hume capostipite dell’illuminismo scozzese, ha fornito un contributo decisivo in tal senso, tanto da svegliare seppur per poco anche il vecchio Kant come lui stesso disse “dal sonno dogmatico”, in cui però riprecipiterà poco dopo l’idealismo hegeliano che gli succederà. Il filosofo scozzese, che sarà un po’ il nostro Diogene in questa seconda parte, in una delle pagine più emozionanti del suo “Trattato sulla natura umana”, scrive:
Non posso negare di nutrire la particolare curiosità di conoscere i principi morali del bene e del male, la natura e i fondamenti del governo, e la causa delle varie passioni e inclinazioni che mi muovono e mi governano. Non mi è facile pensare di approvare un oggetto e di disapprovarne un altro; di chiamare bella una cosa e deforme un’altra; di decidere in merito al vero e al falso, alla ragione e alla follia, senza conoscere su quali principi potermi fondare. Mi riferisco alla condizione delle persone istruite, che tuttavia ignorano tutti questi particolari. Sento sorgere in me l’ambizione di contribuire all’istruzione del genere umano, e che il mio nome venga ricordato per le mie invenzioni e le mie scoperte. Questi sentimenti, nella mia attuale condizione, sgorgano spontaneamente; e se cercassi di bandirli impegnandomi in altri affari o distrazioni, sento che rinuncerei proprio all’aspetto piacevole: questa è l’origine della mia filosofia…Quanto a me, la mia unica speranza è di contribuire in minima parte al progresso della conoscenza, imprimendo, a riguardo di alcuni particolari, una nuova svolta alla speculazione dei filosofi, e indicando loro più distintamente gli unici argomenti in cui è lecito aspettarsi sicurezza e convinzione. La Natura Umana è la sola scienza dell’uomo; e tuttavia è ancora la più trascurata…Ma, prima di inoltrarmi nell’immessa profondità della filosofia che si spalancano di fronte a me, avverto qui il desiderio di fermarmi qui un momento a riflettere sul viaggio appena intrapreso, e che indubbiamente richiede la più grande delle arti e operosità per essere concluso felicemente. Ora, io ho di me stesso l’immagine di un uomo, il quale, dopo aver cozzato in molti scogli, ed evitato a malapena il naufragio passando in una secca, conserva ancora la temerarietà di mettersi per mare con lo stesso battello sconquassato, con l’intatta ambizione di tentare il giro del mondo nonostante queste disastrose circostanze… Ciò che mi impaurisce e mi confonde è, prima di tutto, la solitudine desolante in cui la mia filosofia mi ha confinato, e mi immagino come un mostro bizzarro e strano che, incapace di mescolarsi e integrarsi in società, sia stato espulso da ogni scambio umano, e abbandonato del tutto privo di conforto. Sarei ben felice di correre nella folla in cerca di riparo e conforto; ma non riesco a risolvermi per mescolarmi a tale deformità… Mi sono esposto all’inimicizia di tutti i metafisici, dei logici, dei matematici, ed anche dei teologi: dovrei forse stupirmi degli insulti che mi scaglieranno? Ho dichiarato di disapprovare il loro sistema…Nemmeno con il più accurato ed esatto dei miei ragionamenti potrei motivare il mio assenso: io provo soltanto una forte propensione a considerare fortemente gli oggetti dalla particolare prospettiva in cui mi appaiono…La memoria, i sensi, e l’intelletto dunque, si fondano tutti sull’immaginazione, o sulla vivacità delle nostre idee. Nessuna meraviglia, dunque, che un principio tanto incostante e fallace induca in errore chi lo segue implicitamente (come deve essere) in tutte le sue variazioni.
Per Hume, il pensatore da qualsiasi parte rivolga la sua speculazione non può andare oltre la propria individualità, non si tratta di una scelta egoistica, come una certa critica moralistica ha lasciato intendere, ma di una posizione ontologica connaturata alla natura umana. Questo però non conduce l’uomo al solipsismo, difatti pur mantenendo motivazioni di carattere individuale, il suo filosofare è tutto rivolto a ricercare il consenso e l’approvazione dei propri simili, egli aspirando alla fama tende al bene comune; così come il lavoratore ambendo con la sua attività al maggior compenso, cerca di soddisfare nel modo più efficace possibile i bisogni altrui. Quella che il conterraneo e di qualche anno più giovane Adam Smith chiamerà “mano invisibile”, oggetto di tante discussioni e fraintendimenti, non è stata una trovata estemporanea, ma una metafora, magari ambigua, rappresentativa di un profondo cambiamento a lungo meditato. Dal tumulto di impressioni, di idee, attraverso cui sensi e intelletto continuamente agitano l’uomo, restano solo due punti fermi: il soggetto agente e il tratto individuale di quelle relazioni, su questo sarà possibile costruire la tanto precaria ma la sola certa scienza dell’uomo. Prima però di arrivare alla pars construens, coerentemente con quanto appurato nella prima parte, Hume è universalmente noto per la sua pars destruens. Si tratta della critica radicale al principio di causa, su cui metafisica e scienza della natura hanno costruito la loro pretesa di rappresentare e conoscere un mondo oggettivo indipendente dal soggetto percepente. In buona sostanza Hume afferma che tra una causa e un effetto non può mai esserci una relazione necessaria, difatti è sempre possibile supporre un evento in grado di scardinare quella connessione, la necessità percepita nella relazione è il risultato dell’abitudine acquisita nel tempo dal soggetto percepente; ma lasciamo parlare il filosofo:
La connessione necessaria tra cause ed effetti è il fondamento del nostro inferire uno dall’altro; il fondamento della nostra inferenza il passaggio che sorge dall’unione abituale: le due cose, dunque, sono in realtà una. L’idea di necessità sorge certamente da un’impressione; ma nessuna delle impressioni trasmesse ai nostri sensi può generarla. Essa deve dunque derivare da impressioni interne, o impressioni di riflessione. Nessuna impressione interna, tuttavia, è attinente al nostro argomento, a eccezione della propensione, prodotta dall’abitudine, a passare da un oggetto all’idea del suo compagno abituale. Questa è dunque l’essenza della necessità. Dopo tutto, la necessità è qualcosa che esiste nella mente, non negli oggetti, e non ci è possibile formarcene neppure l’idea più distante, considerata come una qualità nei corpi… L’efficacia o l’energia delle cause non si trova affatto nelle cause stesse, né nella divinità, né nella confluenza di questi due principi: appartiene invece all’anima, che considera l’unione di due o più oggetti in tutti casi passati. Qui, dunque, si trova la potenza reale delle cause, così come la loro connessione e necessità… Nonostante questa sia l’unica spiegazione ragionevole che possiamo addurre della necessità, la nozione contraria è così radicata nella mente, a causa dei suddetti principi, che le mie opinioni verranno sicuramente trattate come stravaganti e ridicole.
La rivoluzione humana è proprio l’idea che relazioni come quelle di: causa e necessità, ma di conseguenza anche di identità, spazio e tempo, non siano insite negli oggetti ma peculiarità del soggetto, da qui nasce la centralità per il filosofo di costruire una scienza dell’uomo, l’unica veramente conoscibile. Occorre inoltre sottolineare il cambio di paradigma epistemologico della nuova scienza: la verità non è più da ricercare negli oggetti ma nelle relazioni che il soggetto instaura con il mondo esterno, in primis i suoi simili, lo stesso concetto di verità a poco in comune con la vecchia epistémé, non si pone più come sapere incontrovertibile, assume invece le modalità di una ricerca senza fine. Con ciò non si intende negare l’esistenza di un mondo esterno alla mente umana, al contrario, quella che denominiamo come “natura” continuamente ci sorprende, ci ricorda la nostra limitatezza e la nostra fallibilità. Saranno proprio questi limiti a guidare Hume nella costruzione della società libera attraverso la ragione, lo strumento più efficace in capo ad ognuno per assolvere al proprio compito esistenziale, in sintonia con la particolare dotazione naturale dell’animale uomo. Perché la società si sviluppi, perché ognuno ricerchi la collaborazione dell’altro per i propri bisogni, servono alcune precondizioni che la sola esperienza può fornire: il diritto di proprietà, il libero scambio della medesima e l’obbligo di mantenere le promesse, necessarie a far sviluppare quegli scambi obliqui, oggi diremmo indiretti, attraverso i quali seppur cercando di perseguire ognuno i propri fini ci adoperiamo per i fini altrui. Seguiamo brevemente il percorso attraverso le parole del filosofo:
Con nessuno degli animali che popolano il globo la natura sembra essere stata più crudele che verso l’uomo, considerati gli innumerevoli bisogni e le necessità di cui lo ha sovraccaricato, e l’esiguità dei mezzi che gli concede per soddisfare le sue necessità… Soltanto nella società egli è in grado di sopperire ai suoi difetti, ergendosi dunque ad una condizione di uguaglianza verso le creature attorno a lui, e magari diventarne superiore. Grazie alla società tutte le sue infermità sono compensate; e sebbene in questa situazione in ogni momento si moltiplichino i suoi bisogni, tuttavia la sua abilità ne risulterà ancora più aumentata, lasciandolo sotto ogni aspetto più soddisfatto e felice di quanto gli sarebbe stato possibile nella sua condizione selvaggia e solitaria…Dopo che gli uomini hanno appreso per esperienza che il loro egoismo e la loro limitata generosità, lasciati liberi, li rendono totalmente incapaci alla vita in società; e dopo che hanno allo stesso tempo osservato che la società è necessaria a soddisfare quelle stesse passioni, essi vengono naturalmente indotti a lasciarsi condurre da regole capaci di rendere i loro rapporti più sicuri e più comodi. A questo punto è soltanto il rispetto per l’interesse che li spinge a imporre e osservare queste regole… L’invenzione della legge di natura in merito alla stabilità del possesso, ha già reso gli uomini reciprocamente tollerabili; quella del passaggio di proprietà e di possesso per consenso ha iniziato a renderli vantaggiosi l’un l’altro: ma queste leggi, per quanto strettamente osservate, non sono ancora sufficienti a renderli tanto servizievoli l’un l’altro quanto potrebbero diventare per natura. Per quanto il possesso sia stabile, gli uomini possono spesso ricavarne un ben misero vantaggio, se di certi beni possiedono più di quanto avrebbero bisogno, e nello stesso tempo soffrono per la mancanza di altri. Il passaggio di proprietà, che costituisce il rimedio appropriato per questo inconveniente, non è comunque un rimedio assoluto; perché può intervenire soltanto sugli oggetti presenti e particolari, ma non su quelli assenti o generali…Tutto quello che possono pretendere, è di imprimere una nuova direzione a quelle passioni naturali, e di insegnarci come soddisfare meglio i nostri appetiti in modo obliquo e artificiale, piuttosto che per il nostro moto impetuoso e precipitoso. Così io imparo a prestare servizio, a un altro senza provare per lui reale benevolenza; perché prevedo che mi renderà il servizio, aspettandomene un altro dello stesso genere, e così da mantenere la stessa corrispondenza di buoni offici con me e con gli altri… Quando un uomo dice di promettere qualcosa, egli in effetti esprime la risoluzione a compierla; e, inoltre, adoperando questa formula verbale, si assoggetta alla punizione di non essere mai più creduto, in caso di fallimento.
In questi brevi cenni sono già posti in nuce la direzione che dovranno intraprendere economia, diritto e politica per costruire la società libera. Va sottolineato che Hume – pur vivendo in un tempo in cui l’economia di mercato è ancora agli albori – oltre a coglierne i meccanismi che sono alla base dei successivi straordinari sviluppi (divisione del lavoro, scambio indiretto, mano invisibile), rileva l’indissolubile legame tra sviluppo economico, stato di diritto e democrazia politica. Ma l’analisi di Hume non si ferma qui: con straordinaria acutezza ci avvisa che questo artificio sociale si regge fino a quando il non meno artificiale sentimento di giustizia si sviluppa con essa:
Abbiamo così scorso le tre fondamentali leggi di natura, la stabilità del possesso, il suo trasferimento per consenso, e il mantenimento delle promesse. La pace e la sicurezza umana dipendono interamente soltanto dalla stretta osservanza di queste tre leggi; e non esiste alcuna possibilità di stabilire buoni rapporti fra gli uomini, laddove fossero trascurate. La società è assolutamente necessaria al benessere degli uomini; e queste leggi sono necessarie a sostenere la società. Qualsiasi limite possano imporre alle passioni degli uomini, esse sono pur sempre la risultante reale di queste passioni, e rappresentano soltanto un modo più artificioso e raffinato di soddisfarle. Niente è più vigile e inventivo delle nostre passioni; e niente è più ovvio della convenzione per osservanza di queste regole. La natura ha dunque completamente affidato questa faccenda alla condotta degli uomini, e non ha istallato nella mente alcun particolare principio originario, in grado di muoverci a compiere una serie di azioni per le quali sarebbero sufficienti gli altri principi della nostra struttura e della nostra costituzione. Inoltre, per convincerci appieno di questa verità, possiamo fermarci qui un istante, e passare in rassegna i precedenti ragionamenti, in modo da trarre qualche nuovo argomento a prova del fatto che quelle leggi, per quanto necessarie, sono del tutto artificiali, frutto di invenzione umana; e quindi che la giustizia è una virtù artificiale, e non naturale.
Quest’ultimo passaggio è estremamente significativo, la società liberà non solo è un artificio che presuppone una costante lotta con le nostre passioni naturali, quindi per definizione precaria, ma cresce nella misura in cui viene sentita come giusta. La società libera pertanto rimane una possibilità nella misura in cui, entro i limiti della natura umana, si caratterizza come scelta morale. Questo punto è di estrema attualità, oggi, vuoi per la complessità dei fenomeni economici, vuoi per le forti implicazioni tecnologiche e specialistiche necessarie per l’analisi dei fenomeni sociali, si tende ad una valutazione meramente utilitaristica dei medesimi, non mettendo nella dovuta evidenza le implicazioni morali che sempre devono accompagnare i cambiamenti sociali. Permettendo così ad una serie di movimenti, come vedremo accumunati dal razionalismo di matrice cartesiana, di utilizzare in modo spregiudicato la morale, o meglio una caricatura moralistica dei fenomeni sociali, in chiave anticapitalista e antidemocratica. Questa fede nella giustizia necessaria allo sviluppo della società libera ci conduce a risolvere una delle aporie più insidiose della modernità: la cosiddetta secolarizzazione. L’illuminismo scozzese, al contrario di quello francese, assieme allo sviluppo della ragione conserva e rafforza la naturale necessità di fede di cui è composta la natura umana. Un essere così debole, incostante, e perennemente soggetto all’errore, non se la potrebbe mai cavare senza un’incrollabile fede verso il proprio agire sentito come giusto per sé ma anche per il prossimo. Il sentimento di giustizia è un compagno fondamentale nella costruzione di una società comune sentita come fonte di ogni ricchezza. Certo la ragione è il ponte tra l’io e l’altro, tutto però cadrebbe nella vanità senza la fede posta ad animare il nostro agire e il medesimo sentimento di giustizia. Come vedremo, questa fede laica sarà una componente essenziale al successo o meno del liberalismo politico.
1.2 Individuo e libertà
La direzione intrapresa dalla civiltà occidentale da più di due secoli non è un cammino obbligato, come una certa cultura formata sulla vecchia categoria di necessità vorrebbe far credere, costituisce viceversa una possibilità, individuo e libertà sono il risultato di quella forma culturale che definiamo cultura liberale. Ed è per questo che quel verbo “propugnare” in definizione, con cui si è inteso descrivere l’azione che compie il movimento culturale chiamato liberalismo, deve essere preso nel suo significato etimologico, combatte per. Non sta scritto da nessuna parte chi debba vincere o soccombere, retrocedere o progredire, certo possiamo dire che in una civiltà con più libertà individuale il liberalismo si afferma. Nella storia per millenni abbiamo avuto interi imperi, i quali, per procurare la libertà a pochissimi riducevano a mezzo il resto. Non a caso ricordiamo con piacere e sentiamo una certa affinità verso periodi caratterizzati da un dualismo più sfumato tra governanti e governati, ne sono stati esempio: la Grecia classica, la Repubblica Romana, il Rinascimento, il Seicento olandese e la Gloriosa Rivoluzione inglese, ma sono state poche lucciole nel buio durato millenni. Come si diceva, solo da meno di tre secoli quel movimento culturale ha iniziato a prendere piede con una certa larghezza, e soprattutto con una maggior coscienza intellettuale ed estensione di mezzi materiali, niente illusioni però: il Terrore prima, i Totalitarismi del Ventesimo secolo poi e il Clash of civilizations dei nostri giorni, sono un monito ad “aere perennius” verso ogni tentazione trionfalistica. Il nucleo intorno a cui si formano individuo e libertà è l’azione umana, la quale, come quella di un qualsiasi altro essere vivente è spinta da uno stesso motivo: rimuovere gli ostacoli che si frappongono al costante tentativo di rafforzare la propria condizione di essere vivente. Che cosa differenzia l’azione umana da quella di qualsiasi altro essere vivente? Mentre nel regno naturale, pur tra diversi gradi di complessità, quei comportamenti ci appaiono riconducibili a quello che possiamo riassumere con la categoria della necessità, l’uomo invece svolge il suo compito in modo qualitativamente non confrontabile con gli altri esseri viventi. L’uomo certamente sarà anche il prodotto di un’evoluzione, ma egli rappresenta un salto, un punto di non ritorno. L’habitat dell’uomo non è quello che abbiamo espresso con l’idea di natura, l’habitat dell’uomo è per intero e in ogni momento solo e sempre la cultura, e tanto più quanto egli si ostina a costruire un mondo che per metonimia vorrebbe addirittura chiamare “naturale”. Il modo con il quale l’uomo organizza la rappresentazione del proprio mondo esprime per intero un’idea individuale del medesimo, seppur parziale e oggetto di costante cura, nutrita da sempre più complesse e articolate relazioni col prossimo come dal sentimento di giustizia che le dà forza. Si esprime lo stesso concetto dicendo che l’azione umana è teleologica, ossia contiene sempre un fine individuale, che non solo differenzia ogni soggetto ma che cambia col passare del tempo nel medesimo. La libertà è sempre “libertà per”, connaturata all’azione umana, e si allarga attraverso l’incremento delle relazioni con i nostri simili reso possibile dalla ragione. Homo homini deus riassume Spinoza per esprimere il senso del civilissimo Seicento olandese, naturale contraltare alla hobbesiana homo homini lupus, attribuita all’autore del Leviatano.
1.3 Il ruolo della ragione
L’uomo agisce sotto il costante impulso di migliorare la propria condizione, in questo senso è costantemente appassionato ai propri fini. Per mezzo della ragione, l’unico carattere che ci differenzia e qualifica come specie, quelle passioni perdono parte della loro carica antisociale e grazie al continuo rapporto di confronto/competizione con i nostri simili si trasformano in: conoscenze, competenze, abilità, vale a dire in strumenti sempre più efficaci a servire i nostri fini individuali in conformità con i fini altrui. Un fondamentale assunto del liberalismo è che la libertà correttamente intesa si sviluppa mediante relazioni sociali di tipo: economico, giuridico, politico e morale, grazie all’individualismo insito in ogni scelta umana, si può essere individui solo in società, ossia in quel luogo dove si è imparato a temperare le proprie passioni con quelle altrui. Il liberalismo chiede all’uomo di smussare le proprie passioni ed è consapevole di quanto ogni equilibrio raggiunto sia instabile e artificiale. Al contrario il razionalismo cartesiano, su cui si sono formate le scienze naturali e una certa sociologia politica attraverso J. J. Rousseau, pretendono l’eliminazione di ogni interesse personale dalle passioni che alimentano i fenomeni sociali, e associa in modo astratto e moralistico l’egoismo all’individualismo, l’altruismo al liberalismo. In realtà, dietro al presunto altruismo si cela la vecchia idea che l’uomo possa agire “libero da” ogni condizionamento, in modo “oggettivo” appunto, secondo lo schema della vecchia epistémé. Questo presunto approccio “scientifico”, di una certa economia, un certo diritto, una certa politica e morale, come si sono incaricati di mostrare i tanti regimi illiberali succedutesi dalla Rivoluzione Francese in poi, nasconde in realtà una volontà di dominio, vere e proprie ideologie nel senso marxiano del termine. F. A. von Hayek ha riassunto questa mentalità attraverso l’efficace formula “abuso della ragione”, mediante cui le élite di turno piegano l’economia, la politica, il diritto e la morale, in strumenti atti a rafforzare e giustificare il loro dominio. Col liberalismo il circolo vizioso viene superato solo quando quelle relazioni si connotano nel ruolo più modesto di mezzo, e la scientificità non cerca “fini oggettivi”, ma si riduce a verifica dell’efficienza e della pertinenza dei mezzi elaborati e selezionati dalla ragione per conseguire i fini liberamente scelti dal soggetto agente. La comprensione del liberalismo passa pertanto da un’analisi dell’azione umana, non più offuscata da occhi interamente soggiogati dall’osservazione del comportamento di ogni altro essere vivente letti attraverso categorie intellettuali che potremmo riassumere nella formula di: “logica della necessità”. L’uomo invece è per così dire un programma aperto: individualità, relazioni con i propri simili e natura, non sono predefinite; è lui che si fa un’idea del proprio mondo, e da questa rappresentazione cerca di modificarlo seguendo i propri fini. Alla ragione – attraverso quella “logica della libertà” che le è propria – spetta il compito di temperare il costante tumulto di passioni in cui versa l’animo umano. La socialità a cui ci conduce la ragione, pur tra mille insidie, scopre di appagare più efficientemente l’inquietudine umana attraverso la collaborazione e non la spoliazione dei propri simili.
1.4 Secondo intermezzo epistemologico
Per la corretta comprensione di questo punto è necessario un ulteriore intermezzo epistemologico, in particolare è estremamente importante definire bene il significato della parola idea. Le idee mediante le quali costruiamo la rappresentazione del nostro mondo, non hanno quasi nulla in comune con il significato dato alla parola idea dal primo che le ha definite in modo potentissimo, la cui influenza è stata enorme sulla storia della nostra civiltà, sto parlando ovviamente Platone. Quel mondo dietro al mondo immaginato da Platone, dove si trovano le idee più vere degli stessi enti reali, viste però solo dal filosofo nella famosa caverna, rappresentano un esempio da manuale di quel processo di ipostatizzazione causa di tanta confusione. Ipostatizzare significa rendere quelle idee non soggette al mutamento, alla corruzione, i filosofi conferiscono loro l’attributo di “sostanza”, definita da Kant non a caso: “la capacità di una cosa di permanere in uno stato”. Dietro quindi quella “logica della necessità”, quella ricerca di un mondo “oggettivo” e stabile, c’è proprio la paura del cambiamento, fermarlo significa immaginare un controllo totale sul mondo. I grandi sistemi elaborati da Platone, Hegel e Marx, hanno in comune quel tratto caratteristico, non a caso K. R. Popper, senza nulla togliere alla grandezza di quei filosofi, li ha relegati a massimi teorici dello stato totalitario. Ben diverso è il significato attribuito dal liberalismo al mondo delle idee. Per il pensiero liberale le idee si esprimono attraverso le azioni dei singoli, sono in costante mutamento proprio perché limitate all’individuo che le pensa, non di rado erronee, necessitano di manutenzione e pertanto libere. Sarà la constatazione di questo stato di debolezza – che per millenni ci ha relegato verso quella che Popper sintetizza nella formula: “società chiusa” – ha renderci ragionevoli e socievoli, così ognuno lavora affinché il pericolo rappresentato dal mutamento venga – attraverso la collaborazione col prossimo – anche se solo parzialmente, costantemente addomesticato; ed è il continuo e sempre più articolato allargamento di questa costruzione senza fine, che per contrasto il filosofo chiamerà “società aperta”, ad essere il frutto più prezioso del liberalismo.
1.5 Conclusioni
L’individuo libero costruisce così il proprio mondo per prova ed errore (trial and error), la ragione lo guida nel costante rapporto di confronto e competizione con i propri simili, e attraverso questa palestra l’individuo impara a rendere il proprio naturale carico di passione sempre più all’insegna della responsabilità e della previdenza; non solo, man mano che accumula mezzi, diventa più intraprendente e speculatore. Da questo rapporto con sé stesso, i propri simili e il mondo che lo circonda, mediante quella che abbiamo definito “logica della libertà“, nasce e progredisce l’individuo libero, in consonanza con la crescita e lo sviluppo delle scienze sociali rilevate e codificate dal liberalismo. Ed è vano aspettarsi di veder crescere quei bei caratteri individuali in altri contesti, giova anche qui confrontarsi con l’esperienza opposta: i totalitarismi e il loro lungo dominio esercitato per gran parte del Ventesimo secolo. Nei paesi a lungo soggiogati dalla mentalità totalitaria, al di là delle sigle e dei colori, lo stato totalitario si è affermato con i tratti di quella “logica della necessità” presa a prestito dalla vecchia scienza della natura. In quegli sfortunati paesi lo stato determina per tutti i fini collettivi da raggiungere, chiamati per questo “beni comuni”; a quel punto gli individui ridotti a mezzi, rinunciano progressivamente alla loro individualità e si abituano ad agire con un minor grado di libertà. In una nazione dove è lo stato a preoccuparsi di tutto non si può certo immaginare che i cittadini diventino più previdenti e responsabili, non a caso nello stato totalitario la corruzione è la regola; così come in quel contesto: intraprendenza e speculazione, non solo sono rari ma pure sgraditi e perseguitati. Il tradimento diventa la categoria per eccellenza della politica; la caccia alle streghe, le purghe non sono “incidenti”, bensì comportamenti coerenti con la mentalità totalitaria. Pertanto, seppur tra diversi gradi di coercizione, la via verso la schiavitù rimane l’unica alternativa al liberalismo.