2.1 La tradizione e lo status
Ogni cambio d’epoca ha sempre coinciso con la messa in crisi dei valori tradizionali dalla cui più o meno lunga decadenza sorgeva un nuovo paradigma capace di stabilire una gerarchia di valori in sintonia col rinnovato spirito del tempo. A rendere la modernità così dirompente rispetto ad ogni epoca precedente non sono i nuovi valori ma la diversa produzione dei medesimi attraverso una mutata concezione del rapporto tra individuo, tradizione e status. Dalla Rivoluzione Francese fino ai giorni nostri si sono succedute generazioni il cui rapporto con la tradizione è oscillato: dalla volontà di farne tabula rasa al più retrivo conformismo, atteggiamenti entrambi solo in apparenza opposti. A ben vedere l’u-topos il non luogo, dell’immaginazione al potere sessantottina o del calendario de-cristianizzato dei giacobini non sono meno astratte di presunte millenarie tradizioni inventate dal Reich tedesco e dei tanti nazionalismi sempre prolifici in tema di “radici”. Entrambe per un verso rompono con la tradizione e propongono un’ideologia totalizzante in apparente sintonia col moderno individualismo, per poi riprenderne però di quelle tradizioni l’aspetto più retrivo: l’istituzione di una gerarchia ferrea e stabile mediante la geminazione di nuove formule di subordinazione tra individuo e potere. Certo magari i primi si presentano a parole estremamente libertari finanche libertini esaltando speranze prive di fondamento, per poi finire in non meno rigide gerarchie e status sociali predefiniti, i quali al contrario sono sin da subito ostentati dai nazionalismi di vario colore attraverso lo spregiudicato utilizzo delle paure collettive. Burocrazie partitiche, familismi, assieme alla cerchia delle mosche nocchiere delle immancabili presunte élite intellettuali, sono state la regola degli svariati movimenti di liberazione quanto delle reazioni identitarie succedutesi in questi duecentocinquant’anni così ben riassunti dalla tagliente ironia dell’Orwell di “Animal farm” tratto, si badi, che accomuna i totalitarismi di destra e di sinistra: “All animals are equal, but some animals are more equal then others”. La modernità è un’altra cosa, ognuno di noi è chiamato a farsi interprete durante il proprio percorso esistenziale del rapporto con la tradizione in cui, questo sì casuale, è stato gettato sin dalla nascita. La ricerca del senso del proprio vivere, la propria gerarchia di valori connaturata alle scelte a cui ogni giorno siamo chiamati non può essere lasciata in capo ai politici, ai filosofi o ai sacerdoti, certo ci si può avvalere di loro ma poi ognuno è chiamato a decidere per sé, a ben vedere tanto le reazioni che le rivoluzioni a cui sopra si accennava non sono che fughe dalle responsabilità verso cui come individui presto o tardi siamo chiamati a far fronte. Occorre però essere chiari, confondere la modernità con la liberazione da fedi e tradizioni è tanto velleitario come il rifugiarsi in miti e superstizioni del passato, ogni vita è un atto unico da interpretare attraverso un proprio personale percorso di valori e credenze connaturati alla singola situazione. La modernità chiede ad ognuno di abbandonare il rapporto fideistico e subordinato con la tradizione non per liberarsi delle radici ma per attingervi e nutrire la propria esistenza conferendole una natura personale, anche qui e sarà un leit motive, la libertà coincide con una ben maggiore responsabilità sulle spalle di ognuno. Bisogna quindi distinguere chi sono i veri “nemici” della libertà: ci sono quelli che non ce la fanno, che falliscono, da qui le fughe all’indietro e in avanti nell’u-topos sopra menzionato reazioni e rivoluzioni sociali sono sempre in rapporto causale, poi ci sono quelli che proprio sfruttando quel disagio contano di instaurare un nuovo ordine, per assumere posizioni di privilegio o magari per mantenere o ripristinare quelle avute in passato; i primi vanno supportati e incoraggiati i secondi smascherati e combattuti. I primi sono la moltitudine a volte ingannata altre volte semplicemente incapace di gestire il cambiamento insito in ogni tratto del vivere sociale e personale, questa sì vera cifra come vedremo della modernità, i secondi sono coloro che a vario titolo sfruttano questa debolezza, i professionisti del potere non della politica, possono venire da ogni ambito sociale e sono tenuti insieme dal solo desiderio di conquistarlo. Essere irrispettosi e sprezzanti verso le difficolta di chi fatica a far fronte agli oneri e alle responsabilità per essere liberi non solo è ingiusto ma costituisce il suicidio della stessa libertà, finisce per incoraggiare chi vorrebbe riportare indietro le lancette dell’orologio reintroducendo gerarchie al cui fondamento sta sempre la sopraffazione. Contrariamente a quanto recita un certo liberismo di maniera, la modernità non richiede di abbandonare la solidarietà ma di ripensarla: né compassionevole né classista. Aiutare le persone mediante il supporto economico creando un rapporto di dipendenza, magari ghettizzandole, non è meno deleterio che abbandonarle al loro destino. Allo stesso modo, affinché l’aiuto non diventi oggetto di divisione sociale, il supporto deve sempre essere volto a favorire l’autonomia e la responsabilità dell’individuo, i bravi genitori mentre accudiscono amorevolmente i loro figli forniscono loro anche strumenti e mezzi per renderli, in un tempo dettato dal contesto autonomi. Non c’è una formula magica per fare i genitori come non c’è per creare una società coesa di individui liberi. Spesso nelle discussioni di economia ci si attarda su presunti assiomi ad esempio: più stato o più mercato, in politica sulle diverse architetture istituzionali; sono tutte cose importanti ma vanno giudicate solo a posteriori dal grado di autonomia e libertà individuale che incoraggiano e favoriscono in quel contesto sociale. L’uomo moderno – assieme ai cambiamenti introdotti nella vita materiale dalla rivoluzione industriale – ha visto completamente stravolto anche la propria vita spirituale; i primi sono l’effetto della seconda, a cambiare è il nostro rapporto con le idee, le ambizioni che le supportano e i modi per attuarle. Se per un verso ogni dimensione trascendente appare preclusa all’immaginario dei più, al contempo l’immanente deve riempirsi di significato, di senso, il qui ed ora ci rende attivi e frenetici come non mai e non si tratta della vecchia hybris prometeica, ma di una maggior consapevolezza del carattere finito e unico del proprio esistere che ci porta, per dirla con un’espressione biblica: alla ricerca di una maggiore “pienezza dei tempi”. Due sono gli ambiti spirituali che hanno riqualificato e profondamente mutato l’uomo moderno: la sua natura di homo agens e quella di homo sapiens. L’uomo che attraverso il proprio percorso esistenziale si ripensa in chiave critica, riflette e rivisita in modo attivo i propri costumi, le proprie tradizioni e le proprie abitudini conferendo loro un senso morale affine alla propria peculiare individualità, vive per esperimento direbbe Nietzsche. Prova e sbaglia poi riflette sui propri errori e li corregge. Non possiamo su questo punto omettere il giusto omaggio a Karl R. Popper, con la sua epistemologia non solo ha rinnovato il modo di intendere le scoperte scientifiche salde nella misura in cui resistono alla confutazione, conservando la tensione verso un fine sempre più alto senza però cadere vittima dell’illusoria quanto totalizzante ideologia positivista. Questo modo di intendere il nuovo ha altresì soprattutto offerto a tutti noi il giusto modo di affrontare ognuno la vita di tutti giorni; i fallimenti, gli errori, gli scorni, che costellano la vita di ognuno in una società aperta sono altrettante occasioni di riscatto e non di vergogna, ognuno si prepara al meglio per vincere sapendo che la vittoria presuppone – assieme alla dedizione e al sacrificio volto al futuro – l’analisi e il ripensamento di quanto si è sperimentato in passato. Non si tratta più di seguire un modello idealizzato spesso irraggiungibile e pertanto oggetto di frustrazione, ma di costruire attraverso il confronto col passato e con il prossimo il proprio modo d’essere nel presente. Questo ruolo agente posto in carico ad ognuno è la causa dell’abbandono di riti e consuetudini collettive tanto laiche che religiose perché sentite come estranee e alienanti. Le chiese vuote come le sempre più deserte feste laiche sono un monito desolante in tal senso dei nostri tempi, eppure a ben vedere non fanno venir meno il sentimento religioso o il desiderio di socialità, anzi, rappresentano piuttosto il rifiuto del carattere passivo insito in quel modello tradizionale. Tant’è difatti che contemporaneamente assistiamo all’esplosione dei social, sembra un paradosso: le più grandi fortune finanziarie dei nostri giorni ruotano intorno al desiderio di socialità, alla spinta verso una sempre più integrante e intrigante connessione. Certo il fenomeno ha ancora una natura caotica e a volte assume caratteri regressivi e kitch tali da far rimpiangere quelle tradizioni, ma siamo solo all’inizio di una rivoluzione che segnerà la ricostruzione attiva della vita spirituale in termini personali. La stessa cura del proprio corpo, l’affinamento del gusto, certo a volte assume la forma parossistica di corpi completamente tatuati o di un affettato giovanilismo, non di rado però sono la cosciente rappresentazione di percorsi culturali originali capaci di conferire pienezza e significato ad ogni fase della vita, compreso per età a lungo in passato lasciate ai margini. La natura agente sempre più preponderante fa il palio con il profondo mutamento della nostra natura pensante. Per millenni il rapporto con le nostre idee ha avuto la forma del catalogo, più o meno ricco più o meno ordinato, magari frutto di un particolare punto di vista da cui tutto il resto viene ripensato dove ovviamente primeggia lo specialista, il filosofo, ma anche il pastore di anime; non di rado questa visione ha creato una vera discrasia con l’esistenza concreta, pensiamo al continuo risorgere di ideali ascetici, ma si pensi anche alla psicanalisi e alle tante patologie nervose dell’uomo contemporaneo. Ad essere caduto in disuso non è la passione per le idee né il confronto e la competizione con quelle altrui, ma quel carattere astratto e separato del sapere dalla vita concreta, dalle passioni e i desideri che sempre stanno dietro ad ogni conoscenza, questa necessità del dato reale non si contrappone alle idee ma le nobilita, le elabora, le raffina senza negarle, in buona sostanza le rende appieno umane e non posizionate in un “iperuranio”, come voleva Platone e tutto l’idealismo che a lui si richiama, contemplabili dal solo filosofo. Così, mentre sempre meno il dibattito filosofico si appassiona a discussioni e confronti sulle idee separate dall’esistenza e dalla vita quotidiana regno delle élite intellettuali, cresce al contempo la domanda e l’interesse da parte di tanti neofiti verso la filosofia e la religione come strumenti per la ricerca di chiavi capaci di conferire un senso più profondo alla propria esistenza, con buona pace delle élite custodi “del sapere” che, come vedremo, proprio per questa loro messa ai margini sono sempre più tentate di associarsi a supporto delle varie forme di regresso dalla modernità. Rifiutare l’idea di un modello precostituito ereditato dal passato certo complica la vita, ma la libera anche da astratti concetti sulla verità, sul bene, sulla giustizia, i quali invece sono in bocca ai veri nemici della libertà e sempre causa di ipocrisie e false coscienze. Non si intende concedere nulla ad alcun relativismo amorale come una certa critica retriva a voluto far credere, l’atteggiamento altresì è il seguente: sono così convinto della giustezza o della verità dei miei comportamenti tanto da rivendicarli ed espormi alla critica dell’altro, finanche a rivedere le mie posizioni se trovo quelle altrui più convincenti. Non nego la verità anzi la sua ricerca diventa parte della mia vita, né il desiderio personale di essere proprio io ad essermi avvicinato di più ad essa, rifiuto invece l’idea che qualcuno l’abbia stabilita una volta per tutte, magari ammantandola di un presunto quanto ipocrita “disinteresse” o di fondamenti “oggettivi”, non meno falsi delle auctoritates che in passato hanno spesso portato più a sedare dubbi che a trovare risposte. In tal senso l’etimo del termine greco verità: a-letheia – dis-velamento – cruccio di tante riflessioni filosofiche, era sin da allora perfettamente significante; il fatto è che questa, un po’ come il principio di non contraddizione, sfugge maggiormente a chi la osserva da vicino e la vuole possedere per diventarne l’unico custode e magari incassarne le royalties. Si tratta di cambiare la prospettiva, potremmo riassumere nei termini seguenti il cambio di paradigma filosofico: mentre la tradizione da Parmenide in poi, partendo proprio dall’”essere che è e non può non essere” coniugato dall’eleate, ha ricercato lungo la straordinaria tradizione filosofica occidentale – dal mondo dietro al mondo rappresentato dalle idee platoniche fino alla filosofia della storia hegeliana – un modo per fissare il carattere eterno e immutabile dell’essere; la modernità ha posto a proprio fondamento il mutamento quale paradigma dell’essere, affinché l’esistenza non in generale ma ogni singola esistenza, venga eletta a testimonianza degli infiniti modi di attuazione dell’essere. Così potremmo ridefinire la spiritualità moderna: sperimentare, contaminarsi, interrogare il passato senza porlo su un piedistallo, essere indulgenti verso gli errori nella misura in cui si è disposto a cambiare e a correggersi, sono tutti sinonimo di modernità. E’ una via dura, tortuosa e irta di ostacoli, proprio per questo occuparsi dei tanti che possono avere difficoltà nel loro percorso esistenziale è eminentemente moderno nella misura in cui i modi di costruzione della solidarietà non mettano in pericolo il paradigma su cui si regge la medesima modernità, riassumibile nei termini di: mobilità, mutamento. Lo stato sociale è una costruzione esclusivamente moderna, in altre epoche della storia non è mai stato neanche abbozzato perché mancava l’orizzonte intellettuale anche solo per pensarlo. I legami di un tempo che in prima istanza sembrerebbero il modello su cui costruire lo stato sociale, come: la famiglia, il vicinato, i legami di sangue, hanno a ben vedere una funzione opposta. Mentre il primo nasce per favorire il cambiamento, i secondi dirigevano l’aiuto solo esclusivamente verso coloro i quali attraverso il loro comportamento di più contribuivano a mantenere lo status quo, erano in buona sostanza una forma di controllo e limitazione del potere sul capo all’individuo. La crisi dello stato sociale – ma ne parleremo più diffusamente quando ci occuperemo dei nemici della libertà politica ed economica – è diventato un impedimento alla modernità solo quando e nella misura in cui ha voluto riprodurre al suo interno le vecchie gerarchie e i vecchi privilegi insiti nel concetto di status. Come vedremo, lo stato sociale nato per navigare nel mare tempestoso della modernità, in una sorta di eterogenesi dei fini, è diventato il cavallo di Troia di chi ha approfittato delle debolezze altrui per cercare di ripristinare vecchi privilegi. Le vecchie élite, pensiamo a Bismarck, hanno fuso la superiorità dei valori “aristocratici” con uno stato sociale compassionevole, così l’“u-topos” reazionario ha riconquistato il potere. Mentre le nuove élite hanno cavalcato l’”u-topos” rivoluzionario mediante la “giustizia sociale” socialista producendo nuove forme di status, nuove gerarchie, impegnate nella conquistare del potere senza esclusione di mezzi. Entrambe si sono avvalse per quel fine sempre di un gruppo di “scribacchini professionisti” mascherati da intellettuali esperti nel produrre ideologie per le masse. Il canovaccio è ogni volta il medesimo: sempre pronti a rispolverare il mito di un’età dell’oro, della “natura” incontaminata a cui ritornare, o la fissità di valori e di idee ma solo, si badi bene, se lasciate alla cura dei vari sacerdoti tanto laici quanto religiosi. Non meno fumosa e pertanto accattivante verso l’occhio dei più è la ricerca di punti fermi assoluti o di interpretazioni storiciste che confermino i medesimi; in buona sostanza: un mondo fatto di essenze, “puro per i puri”, sempre “altro” da quella cosa contraddittoria che ci costringe a sporcarci le mani chiamata vita. Lo schema ha pressappoco il seguente andamento: dove c’è un gregge serve un pastore come pure i cani da guardia, ma perché il potere duri e si consolidi ancor più essenziale è il consenso da raccogliere intorno a una ideologia totalizzante. Così la costruzione di ideologie accattivanti da parte dei numerosi “venditori di pensiero di seconda mano” come li chiamava F. von Hayek, non sono solo la ciliegina sulla torta o il fiocco che abbellisce il pacco, magari appaiono per ultime nella confezione del “sistema”, tuttavia queste ideologie costituiscono sin da subito la parte più importate di chi si organizza per conquistare il potere. L’uomo agisce e pensa all’unisono non si tratta di censurare idee o ideologie né di instaurare un tribunale che separi le giuste da quelle sbagliate, l’errore come abbiamo visto è un’opportunità, il punto cruciale sta nel bandire l’intolleranza insita nel legame che inevitabilmente quelle idee instaurano col potere. Non possiamo neppure chiedere all’intellettuale di non essere portatore di una propria visione o di parteggiare per ciò in cui crede, a rendere l’intellettuale un cattivo maestro è la convinzione di essere portatore di verità assolute, quando l’ideologia assume questa forma le idee altrui diventano nemici da combattere senza esclusione di colpi. E’ difficile sottrarsi al fascino di Platone, di Hegel o di Marx rileva Popper ne: “La società aperta e i suoi nemici”, che potenza di pensiero che larghezza, tutte accomunate però da quell’unico vizio. Ben più pericolosi però dei “cattivi maestri” sono gli epigoni che a loro si rifanno, non solo per la mancanza di quelle virtù intellettuali che hanno fatto grandi i primi, ma perché ogni epigono sistematicamente sopperisce alla propria pochezza legandosi mani e piedi al potere politico di turno, così acquisisce il suo status di detentore del verbo. Possiamo così stabilire un paradigma per smascherare i nemici della moderna libertà spirituale: i cattivi maestri nascondono dietro la forza e la vastità del loro pensiero l’incapacità di tollerare il pensiero dell’altro tant’è che ognuno di questi sempre nei modi più fantasiosi costruisce il suo sistema inglobando e reinterpretando chi lo ha preceduto e lo chiama “vero”. Viceversa gli epigoni celano nel disinteresse e nella bonomia dei loro scritti la lotta per il potere e per il privilegio personale, i primi si vincono col pensiero costringendoli al confronto, dei secondi invece vanno smascherate le vere intenzioni mediante la politica e riportati a misura della piccineria che li anima.
2.2 Contratto e soggettività del valore
Se la tradizione e lo status costituivano l’alfa omega che regolavano le relazioni e definivano i valori tra individui nel passato in un mondo per così dire “dato una volta per tutte”, la modernità lo ripetiamo ha nel mutamento la sua quintessenza, ognuno in un mondo che cambia è chiamato a costruire il proprio tratto individuale. Il contratto nel senso più largo del termine è il mezzo attraverso cui ognuno cerca di dar forma alla propria individualità. La differenziazione è insita nello strumento stesso, ogni singolo contraente valuta seguendo il proprio peculiare punto di vista e le fluttuazioni che questo assume durante la propria vita. C’è sempre una sola convinzione dietro ogni libero contratto: ogni parte è persuasa di ricevere più di quel che dà attraverso la relazione con l’altro, vale a dire concentra nel contratto i bisogni le attitudini della propria condizione individuale valutati di maggior valore in cambio di quelli sentiti in quel momento come meno importanti. Parlare di contratto e di valore potrebbe indurre a ridurre il problema a tecnicismi giuridici o politico economici o al non meno fuorviante “contratto sociale” di Rousseau, in realtà la questione è eminentemente spirituale. F. Nietzsche in un passo del “Così parlò Zarathustra” ne coglie appieno l’essenziale:
“Per conservarsi, l’uomo fu il primo a porre valori nelle cose, – per primo egli creò un senso alle cose, un senso umano! Perciò si chiama ‘uomo’, cioè colui che valuta. Valutare è creare: udite creatori! Valutare è di per sé il tesoro e il gioiello di tutte le cose valutate. Solo valutando egli conferisce valore: e senza di ciò la noce dell’esistenza sarebbe vuota. Udite, creatori! Mutamento dei valori – è mutamento dei creatori. Sempre distrugge chi è costretto a creare. Dapprima furono creatori i popoli, e solo in seguito gli individui; in verità l’individuo stesso è la creazione più recente. I popoli affissero un tempo su di sé una tavola del bene. L’amore che vuole dominare e l’amore che vuole obbedire crearono insieme, per sé, questa tavola. Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io: e finché la buona coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io. In verità, l’io astuto, senza amore, l’io che vuole il suo utile nell’utile di molti: questa non è l’origine del gregge, bensì la sua fine.”… e prosegue “Voi vi affollate ancora intorno al prossimo e avete belle parole per questo vostro affollarvi. Ma io vi dico: il vostro amore per il prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi. Voi fuggite verso il prossimo fuggendo voi stessi, e di ciò vorreste fare una virtù: mai io leggo dentro il vostro ‘disinteresse’. Il tu è più antico dell’io; il tu è stato santificato, ma non ancora l’io: così l’uomo accorre ad affollarsi attorno al prossimo.”
La coscienza è il luogo intorno a cui si forma la nostra personalità, l’altro è la pietra di paragone tanto per identificazione che per distinzione, anche l’azione più altruistica è finalizzata a rafforzare il proprio sentimento di sé, a volte quel sentimento sbaglia e fa il proprio male, quel tratto finalistico dell’agire non il risultato rende sempre l’azione razionale, anche i pazzi e i delinquenti lo sono la nostra azione è razionale dirà Mises perché persegue sempre un fine individuale di miglioramento e rafforzamento della propria condizione. Non solo i cultori del “prossimo” del “disinteresse” tacciando l’io di egoismo inquinano la coscienza la fanno diventare “cattiva”, ma così facendo non si rendono conto che ne offuscano il carattere più eminente. La coscienza abbiamo visto possiede il suo tratto preminente nella relazione, gli infiniti ponti costruiti da questa danno al valore un tratto soggettivo, così quell’aver rotto ogni limite alla creazione del valore rende il percorso esistenziale di ogni coscienza “singolare”. In luogo dei tanti “tu devi”, che affollano la nostra vita: abitudini, tradizione, morale ect. questi fanno i conti con l’io di ogni singola esistenza; così prende piede la consapevolezza di essere l’artefice delle proprie relazioni da cui scaturisce un: “io sono”, certo espressione di una comunità, di un tempo, ma anche insopprimibile risultato della propria personale circostanza dirà Ortega y Gasset. Questo essere un doppio, uno specchio deformato dalla propria soggettività, che muta ad ogni momento e ci rende apprensivi trova la sua stabilità attraverso l’utilizzo di concetti generali che vorremmo oggettivi e misurabili quali: “mondo”, “natura” o qualificati con altri mille nomi, tutti accomunati dallo stare fuori dall’io e per questo essere “altro” determinarlo, è l’essenza della coscienza ed è anche ciò che ci definisce e differenzia come specie. Il “Mensch” dirà Nietzsche si è chiamato col carattere che meglio lo qualifica, colui che misura, ogni atto, se non è semplice istinto animali, assume la peculiarità di azione umana quando diventa cosciente, ossia risultato di una valutazione singolare. Occorre però prestare attenzione al processo di formazione della coscienza, in particolare all’osservazione di Nietzsche “l’io è più antico del tu”: il tu è il gregge e il pastore, il tu è dio e la sua tavola dei valori, il tu è la natura e le sue leggi, il tu in ultima analisi fino a quando è posto fuori dalla coscienza è il limite, nel momento in cui vi entra diventa relazione illimitata. La modernità sta proprio nell’aver accolto appieno questo infinito movimento di allargamento di ogni singola coscienza, certo per un verso limitata dalla durata in cui è inesorabilmente racchiusa ogni vita, purtuttavia impegnata fino all’ultimo respiro a costruire intorno a sé un mondo di relazioni di senso che alla fine del percorso esistenziale coinciderà con la piena espressione di ogni singola personalità. Il liberalismo ha proprio nel passaggio da una morale eteronoma e definita dalla tradizione ad una morale autonoma quale risultato di ogni singolo percorso esistenziale, uno dei suoi tratti qualificanti. A questo punto è chiaro anche cos’è antico: ogni tentativo di ricostruire un rapporto volto a definire i limiti dell’io, dove la coscienza ritorni ad essere subordinata ad un “tu”, che ne circoscriva e diriga il campo di relazioni possibili, in quanto “altro” verso cui ogni rapporto non può che essere di sudditanza. Poco importa che questo “tu” si chiami dio, stato, morale, natura, la dinamica si fa per dire è sempre la stessa: dal movimento che anima incessantemente la coscienza moderna si passa ad una nostalgia per un “altrove” che invece tende alla stabilità, alla quiete, agognata proprio perché estranea alla vita e al suo intimo affanno. Onde evitare facili fraintendimenti vale la pena di approfondire il senso dell’espressione nietzscheana “valutare è creare”; l’io non è dio non crea dal nulla come vorrebbe chi ci crede, l’io misura: ossia quantifica vale a dire valuta ciò che è “altro” in relazione a sé stesso. Facciamo attenzione a questo passaggio, chiedendo aiuto alla rivoluzione marginalista che in economia meglio che in tutte le altre scienze sociali ha colto questo intreccio. Quando io dico che nella mia scala di valori il pane vale ad esempio 13 e le sigarette 10 creo una relazione che per un verso oggettiva il mio giudizio, nel senso che quantificandolo lo rendo paragonabile a quello del prossimo e mettendolo in una scala ordinale posso arrivare a definire attraverso una media un prezzo. Tuttavia, quel giudizio non perde nulla della propria soggettività e arbitrarietà, oggi ho posto al pane il valore di 13, domani, magari perché sazio, il cardine che definisce il rapporto tra me e il pane diventa 9 mentre le sigarette rimangono a 10, come la mia valutazione allo stesso modo muta quella di altri individui e così di seguito il numero ordinale che raccoglie e compare le diverse singole valutazioni si oggettiva in un prezzo diverso dal precedente espressione di quel singolo momento in quel particolare luogo. La rivoluzione marginalista non è che l’espressione economica del primordiale processo di formazione della coscienza, esprime quella stessa duplicità: essa è contemporaneamente cardine perché rappresenta un punto di vista soggettivo, ma al contempo è ordine perché sottoposta ai limiti e alla comparazione con l’altro da sé, ed in questo senso la relazione non può che concretizzarsi latu sensu nella forma del contratto più sopra descritto, capace di fotografare per un momento una situazione perennemente fluida e dinamica. La coscienza abbiamo visto prende forma nella misura in cui si differenzia dall’altro, l’individualità ne è il risultato, qual è il limite? Il riconoscimento della stessa facoltà in capo al prossimo, qui sta la fonte di ogni uguaglianza e anche di ogni perversione egualitaria. Questa è anche l’unica vera fonte del diritto moderno, nessun giusnaturalismo di presunti quanto vaghi diritti naturali né diritto positivo creato ex nihilo, solo le leggi che affermano e rafforzano il nostro essere tutti individui singoli impegnati ad affermare la singolarità della propria esistenza ci rende uguali davanti alla legge. Certo, pochi di noi sono destinati a diventare grandi individualità, queste non sono un’invenzione della modernità, sempre sono esistite le grandi personalità, le eccezioni capaci di uscire dal coro e di modificare con la loro opera il paradigma di un’epoca nell’ambito in cui operano. La vera differenza col passato: è che questo sentimento di dover essere prima individuo impegnato nella costruzione di una propria coscienza individuale e poi parte di una tradizione, di un’epoca e di un luogo, ci accomuna tutti. Solo pochi si eleveranno a paradigma ma tutti ci sentiamo impegnati a diventare individui; la specie, per rimanere a Nietzsche, il filosofo che più a fondo ha indagato queste dinamiche, è semplicemente un mezzo il fine è sempre il singolo. Passare dalla società dello status dove ognuno appartiene a un “tu devi” definito e con cura delimitato a cui ci si può adeguare in modo più o meno efficiente, alla società del contratto dove ogni io continuamente e contemporaneamente si distingue e si intreccia con l’altro in un equilibrio perennemente precario, significa ridefinire le istituzioni collettive, le quali, non solo non devono contrapporsi al carattere preminentemente individuale dell’esistenza bensì devono incoraggiarlo, affinché il cambiamento, la contendibilità del valore e delle gerarchie sociali, diventino la regola non l’eccezione. Con essa crescono anche i sentimenti di paura, vergogna e invidia per il timore di fallire o perché non ci si sente adeguati a gestire il cambiamento; questi sono il vero carburante di tante reazioni in nome degli “antichi valori” o delle rivoluzioni all’insegna della “giustizia sociale” tutte apparentemente ammantate di belle promesse all’insegna dell’altruismo. Così i nemici della libertà portano la battaglia sul terreno della politica e dell’economia, anche lì occorrerà con pazienza separare il grano dal loglio.