3.1 Le funzioni della politica nella società liberaldemocratica
L’uomo diventa zoon politikon non per scelta ma per necessità. L’inadeguatezza a sopravvivere affidandosi solo agli istinti come fanno il resto dei viventi viene compensata dalla capacità di ritirarsi nel pensiero in quello che abbiamo visto essere uno specchio seppur personalissimo del “mondo”, la coscienza, per costruire un proprio habitat retto su una sempre più complessa e articolata rete di relazioni con il prossimo. C’è però modo e modo per farlo. Fino all’avvento del liberalismo il fine di ogni politica era la costruzione da parte di una minoranza più o meno ampia di una qualche forma di istituzione centralizzata – definita nei secoli in vario modo – tutte però accomunate dalla capacità di assolvere ai compiti ritenuti da quella minoranza meritevoli di una concentrazione collettiva del potere nei modi e nelle forme consoni agli interessi rappresentati. La stessa costruzione del consenso, giustamente da Hume ritenuta condizione necessaria al permanere nel tempo di qualsiasi istituzione collettiva, era tutta rivolta al rafforzamento di quel potere centralizzato. Il liberalismo ribalta i termini del problema, prima una lunga maturazione spirituale che ha reso sempre più autonomo e responsabile l’individuo verso i vincoli collettivi, poi la “scoperta” certificata dall’esperienza dell’incomparabile superiorità ed efficienza politica e come vedremo anche economica di istituzioni capaci di raccogliere e rappresentare seppur in modo mediato potenzialmente le istanze di ogni individuo, hanno posto le basi per un cambiamento radicale del fine dell’azione politica. Così la politica – da collettore e gestore di un potere fornito da una minoranza magari determinatissima, ma separata però dal resto se non per quel tanto che basta a non permettere la formazione di un potere in grado di surclassarla – diventa azione volta a rendere possibile la formazione e l’espressione della libertà individuale, nel senso sopra definito in termini di limiti e responsabilità, estremamente capace di mobilitare intorno a questo comune sentire forze politiche ed economiche magari meno coese ma incomparabilmente più grandi e potenti rispetto al passato. E’ bene prendere coscienza del cambio radicale di prospettiva, ogni forma di precedente elaborazione politica – dalla democrazia atenese all’assolutismo del Re Sole – definiva a priori ed in modo assoluto chi poteva accedere alla formazione e alla gestione del potere e chi ne era per sempre escluso. La razza, il censo, il sangue, le caste, sono costruzioni concettuali volte a separare e limitare al minimo la contaminazione tra i diversi ceppi di una comunità, la selezione avviene in modo pressoché totale sin dalla nascita, questo faceva sì che le classi sociali lasciate ai margini dal potere non sentissero verso questa esclusione alcuna forma di ingiustizia, le loro erano per così dire vite parallele condotte in mondi privi di un reale contatto. Un’autocrate salito al potere per successione capace di assolvere ai bisogni economici della sua corte e alla difesa dei confini per mezzo di una limitata tassazione, era percepito dal suo popolo come una guida liberale e benevola non certo come un tiranno. In una liberal-democrazia sono gli individui tutti, senza alcuna possibilità di limitazione, non i governanti di turno o l’entità collettiva prescelta all’esercizio del potere, che godono incondizionatamente di alcuni diritti inalienabili capaci di garantire ad ognuno la libera partecipazione alla vita democratica nei diversi gradi di rappresentanza secondo la propria sensibilità e propensione. La costruzione del consenso intorno alle istituzioni democratiche – quando non è pervertita da fini che, come vedremo, tendono a snaturarne la funzione – è volta a rafforzare e proteggere il ruolo politico dei cittadini nonché a limitare la possibile invadenza delle medesime istituzioni nella vita di ognuno. Ovviamente le condizioni di realizzo di questa partecipazione ha enorme varietà in funzione dell’estensione di quei diritti e dall’efficienza delle istituzioni preposte al funzionamento della macchina democratica, quello che in questa sede preme mettere a fuoco non sono le proposte di miglioramento ed estensione del modello liberaldemocratico, ma i pericoli di regresso di quel modello a forme di organizzazione politica del passato. Peggio ancora, come abbiamo imparato a conoscere dalla storia recente, il pericolo maggiore viene dalla formazione di sistemi capaci di unire: l’efficienza delle democrazie moderne nel produrre alta concentrazione di potere politico ed economico e le più bieche e spietate forme di autoritarismo ereditate dal passato, modello conosciuto e descritto nel secolo scorso attraverso la categoria del totalitarismo.
Perché uno stato liberaldemocratico permanga e si rafforzi vi sono alcuni punti non negoziabili da mantenere: a) la separazione dei poteri dello stato attraverso la divisione dei primi e la limitazione di ogni iniziativa di quest’ultimo volta a mettere in discussione i diritti individuali; la Costituzione e il governo della legge sono i consueti mezzi volti a tal fine. Lo scatto in avanti dell’Occidente degli ultimi trecento anni non è certo dovuto alla superiorità di mezzi o tradizioni culturali men che meno razziali, ma dall’aver spostato il potere che determina l’azione collettiva dallo stato alla singola persona, le lotte contro la pervasività della religione e dello stato assoluto nella vita degli individui ne sono state il prodomo. b) L’espressione dei poteri dello stato attraverso forme di rappresentanza che permettano ad ogni singola individualità di pesare allo stesso modo nel gioco democratico, dove il grado di partecipazione varia in funzione della distanza tra rappresentati e rappresentanti, più diretta se è locale più indiretta se generale. Certo la gestione del potere con forme più o meno estese di partecipazione democratica non è né il modo più veloce né il meno dispendioso per la formazione della decisione, rimane però l’unico in grado di garantire pari dignità ad ognuno. c) Il passaggio dei poteri dello stato deve avvenire prevedendo forme pacifiche e ben definite. Sembra banale ma la tentazione di alterare le regole del gioco – si badi bene sempre supportato a parole da nobili fini – per consentire al potente di turno di conservare o tramandare quel potere che i cittadini gli hanno affidato in via temporanea, rimane lo sport preferito di gran parte del ceto politico senza distinzione di colore. Affidarsi alla sola buona volontà dei singoli è mera illusione. Popper sintetizza perfettamente la questione nella seguente formula: “il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”.
3.2 I nemici della liberaldemocrazia
I nemici della liberaldemocrazia sono sempre gli amici del grande stato. Con questo non si intende porgere il fianco ad alcuna delle astratte teorie anarcoidi o fobie verso ogni forma di stato che vada oltre la funzione di guardiano notturno, il punto è il tentativo e la tentazione perenne di gruppi organizzati, più o meno grandi più o meno potenti, di riportare lo stato alla sua vecchia funzione originaria di instrumentum regni al servizio di alcuni per esercitare il dominio sul resto. Come abbiamo già visto parlando dei “nemici della libertà spirituale”, lo stesso risultato lo si può ottenere per due vie apparentemente opposte, una definita dall’analisi politica di “destra” e l’altra di “sinistra”, tuttavia, come vedremo, la prima diventa l’anticamera della seconda. La via della “destra” è il classico: “ci penso io”, del resto chi non vorrebbe di fronte a problemi tanto complessi come la sostenibilità ambientale dello sviluppo o i mutamenti del mercato del lavoro prodotto dai cambiamenti tecnologici starsene comodamente sul divano e schiacciando un pulsante dire: “sì specialista fai tu”. Intendiamoci, le competenze e la preparazione sono essenziali per risolvere problemi complessi, ciò non toglie però che l’indirizzo politico non debba essere per intero in capo ad ogni cittadino, anzi, come abbiamo visto la superiorità della liberaldemocrazia sta proprio nella capacità di mobilitare enormi masse su comuni interessi e produrre così una forza politica sconosciuta capace di porsi obiettivi comuni ben più importanti e ambiziosi rispetto alle precedenti forme di gestione della res publica. La seconda invece quella che abbiamo definito, e sottolineo di nuovo il carattere apparente di tale epiteto, di “sinistra”, è per alcuni tratti più insidiosa e subdola. Nel capitolo precedente abbiamo analizzato come fu il passaggio: da una società incentrata sullo status e la tradizione ad una società basata sul contratto e l’individuo valutante a scatenare quella mobilità sociale, vera novità e precondizione per il grande arricchimento degli ultimi tre secoli, ma anche fonte di insicurezze e paure tanto economiche che spirituali. Da lì nacque l’idea di istituzioni capaci di aiutare e supportare i cambiamenti sempre più frequenti richiesti dalla modernità quando si è più deboli perché malati, anziani, disoccupati o troppo giovani per provvedere a se stessi, in cambio di un progresso senza precedenti nella vita di ognuno. L’utilizzo perverso del nascente stato sociale fu come sopra menzionato iniziato da Bismark ma poi gli allievi: Mussolini, Hitler e Stalin, hanno di gran lunga superato il maestro. Tutti costoro sono accomunati dalla capacità di manipolare paure, e bisogno di sicurezza, per costruire attraverso l’utilizzo distorto dello stato sociale uno stato enorme, “totalitario” appunto. Prendendo a pretesto quelle giuste esigenze, hanno prima occupato lo stato con tutti i mezzi, poi trasformato le istituzioni preposte a lenire le difficoltà in una macchina del consenso e catalizzatrice di potere; quando quelle risposte diverranno inevitabilmente meno efficienti – e vedremo quando parleremo di economia perché questa è una costante non eludibile – quello stato ora totalitario compenserà l’inefficienza con una politica autoritaria e aggressiva. Partendo da istanze ideologiche formalmente opposte tutti questi nemici della libertà politica arrivano agli stessi risultati: la società da più mobile ed equa diventa immobile e clientelare, grandi proclami sulla “vera” libertà rispetto alle “formali libertà borghesi” finiscono per trasformare i cittadini in sudditi aizzati l’un contro l’altro per accaparrassi prebende distribuite dalla politica. Certo i totalitarismi del ventesimo secolo appaiono ora come un bersaglio fin troppo facile, ma se analizziamo i modi, per restare all’esempio italiano, con cui abbiamo costruito quel gigantesco debito pubblico che ci ha reso tutti cittadini meno liberi, se consideriamo l’inefficienza di uno stato enorme che oltre a non funzionare si mangia ogni anno più di metà della ricchezza prodotta, troviamo – ovviamente in forme rinnovate e nei modi consoni al nostro tempo – i vecchi difetti che il Ventennio Fascista aveva esacerbato fino a portare il paese alla rovina, difetti purtroppo a ben vedere già presenti nelle vene del nostro paese all’indomani dell’Unità d’Italia. Segno inequivocabile di una liberaldemocrazia in ritirata è la preminenza del potere esecutivo sulle restanti istituzioni. Quando lo stato diventa troppo grande l’esecutivo, ossia chi governa, finisce per mangiarsi subordinandoli a sé gli altri poteri: legislativo e giudiziario come anche i cosiddetti corpi intermedi: sindacati, associazioni di categoria e partiti. Anche qui si noti il filo rosso che unisce, mutatis mutandis, lo stato totalitario che li incorpora in sé, con lo stato diciamo così troppo grande come nel suddetto esempio italiano. Senza la separazione dei tre poteri, i corpi intermedi, vedono progressivamente indebolita e snaturata la propria funzione, a tal punto che una parte dell’opinione pubblica inizia a sentirli più come un fastidio, un impedimento alla propria libertà, che una garanzia alla medesima. E’ in queste situazione che nasce in una parte dei cittadini la tentazione solo apparentemente paradossale che: per mantenere la libertà sia necessario ridurla. Così mentre l’esecutivo sempre più si incarna nell’uomo forte con sempre meno limiti al suo potere, per converso il legislativo per decidere deve sempre meno discutere, finendo per diventare – attraverso lo snaturamento della funzione partitica ma anche di sindacati e associazioni di categoria – una dependance dell’esecutivo; impegnati più a rappresentare interessi particolari in cerca della benevolenza dell’esecutivo che l’interesse generale secondo i diversi punti di vista propri di una società complessa. A completare il caos, ma non poteva essere altrimenti, la giustizia, da indipendente e custode della legge, la cui autonomia dovrebbe essere nell’interesse di tutti, cade inevitabilmente nell’agone politico. In questi casi, spesso accompagnati da acute quanto ulteriormente divisive crisi economiche, le tentazioni di alterare il gioco democratico in modo più o meno permanente, proprio prendendo a pretesto il caos e lo scoramento generale, non rimangono invenzioni raccontate da tanta letteratura moderna ma iniziano ad infettare alcune parti del paese. In particolare, la crisi economica torna per finire a ridividere: per un verso, in modo marcato parte consistente dei cittadini in classi opposte negli interessi, le élite e un sottoproletariato anonimo, per l’altro, quelle stesse classi essendo un prodotto della crisi, sono unite dallo stesso sentimento di paura e spietatezza verso i tanti presunti “nemici” del loro disagio. Così i modi spicci ritornano di moda. Qui sta il vizio d’origine di tante liberaldemocrazie, e l’esempio italiano è stato ed è un caso da manuale – come ci ricorda il grande storico Gaetano Salvemini nelle sue lezioni di Harvard sulle origini del Fascismo – ma anche un monito sull’effettiva possibilità di regresso della democrazia a forme del passato. Affinché le istituzioni democratiche non si dissolvano, devono prevedere una corretta partecipazione di chi rappresentano tanto nell’indirizzo che nella gestione del consenso. Sognare di lasciare come nell’antico regime le scelte fondamentali e la guida ad una élite intellettuale rappresentante degli interessi costituiti lasciando invece alle masse il ruolo da tifosi da stadio, è tanto perverso per il modello liberaldemocratico, come l’opposta tendenza di collegare direttamente il tifo da stadio all’esecutivo nell’illusoria idea di una “democrazia diretta”, con i capi popolo impegnati in una gara al ribasso nel fornire risposte semplicistiche quanto irrealistiche per la soluzione di problemi complessi. Entrambe le opzioni non funzionano non tanto per le persone che le incarnano, certo élite illuminate o capi popolo responsabili avrebbero ed hanno avuto in passato ben altro effetto sulle istituzioni rispetto a tiranni e demagoghi, ma non durano, a un certo punto sono destinate a decadere. Per rimanere alla storia patria l’antico regime liberale post-unificazione e il fascismo successivo danno la misura di quella differenza, lo stesso vale per i capi popolo del dopoguerra se messi a confronto con quelli prodotti negli ultimi vent’anni di cosiddetta seconda repubblica. Purtuttavia la nostra è la storia di una democrazia incompiuta, proprio perché i meccanismi istituzionali preposti al suo funzionamento non sono andati oltre alla vecchia logica che regolava i regimi del passato. Le istituzioni liberal-democratica sono sì espressione di una democrazia rappresentativa ma quella rappresentanza deve essere effettivamente popolare, così come la formazione delle opinioni intorno alle idee, perché possano essere effettivamente rappresentate, hanno bisogno di essere il frutto di una concreta elaborazione collettiva. Non solo quindi l’accesso alla rappresentanza deve essere vasto e aperto, ma anche la formazione dell’opinione deve sottostare alle cure che ne prevengano la manipolazione. Le istituzioni democratiche per sopravvivere non possono semplicemente conservarsi come accadeva per i vecchi regimi, hanno la necessità di essere parte di un corpo mobile e in costante trasformazione, come la vita di coloro che intendono rappresentare. Come per la libertà individuale, anche la libertà politica cresce attraverso la maggiore responsabilità di ognuno. Libertà e responsabilità perché non rimangano flatus vocis hanno bisogno di esercizio, di misurarsi con la pratica quotidiana, in questo senso gli Stati Uniti proprio perché nati e pensati per essere democratici sin da subito costituiscono tuttora un modello insuperato. Sono passati poco meno di duecento anni, tuttavia, non hanno perso nulla dell’antico fascino le ispirate parole dell’aristocratico francese Alexis De Tocqueville nel suo viaggio americano nel descrivere lo stupefacente attivismo del popolo americano nel gestire direttamente a livello locale le tante cose che abbisognano di una gestione collettiva. Dalla giustizia all’ordine, alle piccole opere pubbliche, passando per la scuola e l’assistenza caritatevole, fino alla vita spirituale e ricreativa; questo dinamismo sociale non sono un semplice seppur meritevole modello di decentramento dello stato centrale, ma la descrizione di un microcosmo che in tutto e per tutto riproduce le funzioni che poi regoleranno il rapporto tra stato centrale e la federazione. Solo così la separazione dei poteri, il ruolo dei corpi intermedi, le garanzie individuali di un giusto processo, non rimangono astratti principi per alcuni letti sui libri di scuola e per tanti altri addirittura destinati a restare ignoti. Solo così la retorica intorno alla costituzione e sui principi che l’hanno ispirata perdono quel carattere di artificio elaborato da una casta per proteggere il suo status e si incarnano nel dibattito quotidiana; dove la realtà che inevitabilmente cambia deve trovare in quei principi fonte di ispirazione per interpretare e costruire il futuro, e non come troppo spesso accade sempre nuovi impedimenti volti allo sterile quanto vano tentativo degli interessi costituiti di tenerci ancorati a un passato che non torna. Solo attraverso l’esperienza la formazione dell’opinione si misura con le difficoltà e i limiti di ogni teoria quando deve diventare pratica, ed è quello stesso limite che addestra, prepara e seleziona le forze migliori, attingendo da tutti i settori della società civile per essere superato. Questo è il naturale percorso per la formazione del personale politico prima locale per poi, se capace e competente, poter aspirare al livello nazionale. Ma questo è anche la necessaria palestra per chi, pur non diventando un politico deve, in quanto cittadino, essere in grado di giudicare la politica, ossia di formarsi un’opinione certo personale ma ispirata al bene comune senza cadere in balia della demagogia. Senza questi anticorpi sanare le fratture, le tensioni, che inevitabilmente si ripropongono nei momenti di crisi e difficoltà tra élite e popolo, tra tecnici e società civile, diventa pura illusione; come è u-topos dicevamo pensare di costruire una società senza problemi, per una società che ha abbracciato il cambiamento come suo modo d’essere questi sono la norma non l’eccezione. La pratica concreta della democrazia, l’abitudine alla complessità insita in qualunque decisione collettiva anche se di natura locale, rimane anche l’unico antidoto verso l’informazione distorta e la manipolazione del consenso. Per questa via rimane possibile prevenire e smascherare le infinite teorie del complotto da sempre fonte senza fine di consenso per il demagogo di turno, di chi escluso dalla cosa pubblica e frustrato dall’insicurezza viene facilmente indotto a credere in spiegazioni semplicistiche, soprattutto se supportate dagli immancabili capri espiatori capaci di catalizzare in un’unica causa problemi complessi. Quando poi la causa diventa una persona, una razza, una religione o qualsiasi cosa diversa dalla tradizione consolidata, non sono inconsuete forme di vero e proprio odio e intolleranza tali da mettere a dura prova la tenuta di un paese. La deriva può essere fermata solo dalla rigida applicazione del principio per eccellenza di ogni politica democratica: tollerante verso ogni forma di differenza, intollerante verso ogni manifestazione di intolleranza. Non meno importate: la democrazia praticata rafforza la componente fideistica della nostra complessa natura umana e per quella via diventa vera e unica cura allo scetticismo, al cinismo diffuso, alla mancanza di speranze e fiducia, per dirla filosoficamente al tratto nichilista proprio della modernità. La liberaldemocrazia – se non vuole cadere vittima del relativismo culturale insito nella sua natura immanente e diventare mezzo fra mezzi – deve assurgere ad una dimensione trascendentale ed elevare gli strumenti che abbiamo visto essere fondanti ed essenziali per la sua stessa sopravvivenza a livello di vero e proprio rito codificato. Questo il senso più profondo della cura per la “forma” peculiare di ogni società democratica, tale da potere fare di questa una vera e propria religione laica. La società democratica deve raccogliere e alimentare la fede di tanti cittadini che un tempo era riposta soprattutto verso realtà trascendenti; questa fede laica, senza alcuna contrapposizione alla dimensione religiosa della vita che ognuno privatamente può esercitare nelle forme più consoni alla propria individualità, si nutre di tutti sogni e le speranze che ci spingono a metterci insieme per costruire modi e mezzi capaci di fornirci maggiori occasioni nel futuro, per esprimere, nei limiti insiti in ogni esistenza, la propria singola individualità. Proprio questa comune tensione a diventare individui attraverso mezzi che ci stimolano a collaborare ed essere solidali con il prossimo è l’atto di fede della società democratica, e il paradosso che si invera nella medesima spinta a diventare “singoli”, ossia tutti diversi e per questo uguali, rappresenta il minimo comune denominatore che tiene insieme la società democratica. Essere accomunati nella fede di far parte di una comunità dove ogni singola differenza è fonte di valore rende la forza e la speranza nella società democratica ben più preponderante delle delusioni e dei compromessi a cui è inevitabilmente esposta ogni singola realizzazione; in questo senso la lezione americana rimane tuttora ben lungi dall’essere compresa dal vecchio continente. La forza del mito di Horatio Alger che, pur non essendo riuscito a realizzare gran parte dei propri sogni, può con fiducia passare il testimone ai figli senza perdere l’ottimismo e continuare a credere che avranno le loro occasioni per farlo, o del self made man che trasforma in occasioni i propri fallimenti, non sta nel successo o nella garanzia del risultato, bensì nell’essere un “mito” alla portata di tutti.