ENTREPRENEURSHIP

L’Italia e la crisi

Se è vero che il 2008 ha rappresentato uno spartiacque per l’economia mondiale, lo è stato soprattutto per paesi come l’Italia, ancora incapaci di riformare quell’architettura keynesiana delle nostre istituzioni politiche ed economiche adottate in tutto l’Occidente dal secondo dopoguerra sino alla fine della guerra fredda. Mentre allora proprio quel mix di big government e inflazione permisero il controllo del conflitto sociale e furono decisive per la vittoria della battaglia ideologica, con il cambio di scenario prodotto dalla globalizzazione quegli stessi strumenti sono divenuti decisamente obsolescenti. Tra i tanti effetti della grande crisi sul sistema capitalistico italiano, il più dirompente in termini economici è stata la messa in discussione del modello imprenditoriale familiare, largamente diffuso fino a quel momento nel nostro paese. Il sistema industriale italiano da sempre si caratterizza per un numero molto elevato di piccole e medie imprese a conduzione famigliare, mediamente sottocapitalizzate, dove il rischio di impresa è stato sostenuto per decenni da un reticolo di banche locali compiacenti. Grazie agli enormi guadagni fatti sulla pelle dei consumatori spolpati da un sistema creditizio non concorrenziale, quelle banche si sono permesse il lusso di finanziare fino alla crisi a tassi bassi il sistema imprenditoriale senza un’attenta valutazione del rischio. La stessa fonte gli ha consentito di pagare profumatamente il loro personale impiegatizio e dirigenziale, per decenni il mito del posto in banca, ora anch’esso in crisi, ha nutrito i sogni di mamme e fidanzate. Non bisogna infine dimenticare la proprietà di quelle banche, quasi sempre coincideva con gli stessi imprenditori più potenti e i loro accoliti apparecchiati per il banchetto. Tutto questo non esiste più, perché la nostra classe politica abbia negato per anni l’esistenza di un problema banche in Italia, è spiegabile solo attraverso la connivenza della stessa con quel tipo di sistema economico e finanziario andato in tilt con la crisi. Purtroppo i tentativi delle élite di autoriformarsi, e non poteva essere altrimenti nella patria di Pareto e di Mosca, sono tutti falliti. Questo nonostante la diffusa convinzione presso quelle stesse élite di dover passare da una politica consociativa a una politica decidente e trasformare la suddetta architettura keynesiana dello stato: da gestore e limitatore del mercato a creatore e propulsore di cornici giuridiche atte a favorire la diffusione di mercati efficienti e aperti operanti in ogni ambito del nostro vivere civile. Come sempre le crisi assieme ai problemi se affrontati diventano occasioni, oltre che per sanare storture e ingiustizie, anche per costruire un futuro su gambe più solide. Magari la politica in quanto sovrastruttura, si sarebbe detto un tempo, può anche prendersela comoda e veti incrociati, personalismi, difese castali, avranno ancora per un po’ la meglio; viceversa per l’economia reale già ora il re è nudo, e il problema di costruire imprese finanziate in modo adeguato e solido non è rinviabile.

E le imprese…

Così con l’arrivo della crisi qualcuna ha chiuso (purtroppo circa un quarto del manifatturiero), altre hanno velocemente passato la mano confluendo in grandi gruppi quotati in borsa, qualcuna proverà a quotarsi lei stessa, mentre per quelle medio piccole e per le start up si sta cercando di mettere a punto strumenti finanziari come i PIR (piani individuali di investimento) o gli equity crowdfunding (il finanziamento di idee imprenditoriali attraverso raccolte di fondi on line). Quel che qui preme evidenziare non sono tanto i tecnicismi delle nuove forme di finanziamento, ma il minimo comune denominatore che le accomuna, la netta separazione tra chi ci mette il capitale e chi fa impresa, superando così la tradizionale e abusata distinzione tra capitale e lavoro e tutte le idiosincrasie classiste che si porta dietro. Nella vita di ognuno tutto ciò è da tempo ben radicato, non solo il possesso di capitale è sempre più anonimo e diffuso, ma l’attenzione è rivolta al solo rendimento dei propri investimenti dove il rapporto con l’asset è decisamente più simile a quello tra consumatore e bene di consumo; mentre dall’altra parte chi produce, gli imprenditori e la variegata schiera di professional, sono impegnati a vario titolo nella catena del valore legando il loro destino alla capacità di creazione della “torta”. Che sia la volta buona per chiudere i conti col Novecento, a torto almeno per l’Italia definito “secolo breve” dallo storico inglese Hobsbawm? E’ il caso di approfondire questa ulteriore divisione del lavoro e della conoscenza già largamente diffusa nei paesi a capitalismo più avanzato e finalmente, speriamo, in arrivo anche da noi. L’impresa pre-crisi era costruita attorno al capitalista imprenditore e le suddette modalità di finanziamento; costui, come un vero dominus, sceglieva i propri dirigenti instaurando con questi un rapporto più di tipo fiduciario che di puntuale verifica dei risultati attraverso il mercato. Non che questi non contassero, ma quella verifica era interamente sulle spalle e orgogliosamente rivendicata dal capitalista imprenditore. Fino a quando la dimensione e la complessità del modello di business hanno permesso di accentrare su una sola figura quel ruolo il sistema ha funzionato egregiamente, la cosiddetta flessibilità del modello italiano derivava proprio da quella semplificazione della catena di comando. Quando però il mercato ha iniziato a chiedere modelli di business per un verso worldwide, per l’altro, formati da pacchetti di componenti tecnologici integrati quale risultato di articolate e variegate storie imprenditoriali, è iniziato un processo di fusione dove per estensione e complessità le nuove imprese sono completamente sfuggite al controllo di una singola figura. Il moderno principe imprenditore è diventato un feudatario costretto a condividere il comando con altri feudatari e le loro rispettive corti, ognuno più occupato a curare quest’ultime e i relativi rapporti di forza interni più che a creare valore per il mercato. La grande crisi ha reso manifesta l’inefficienza di quel modello di business, costringendo il nostro paese ad adottare quello già selezionato per prova ed errore dalle economie più avanzate, e accelerando la creazione di un azionariato diffuso e anonimo in grado con pochi numeri, seguendo il profitto, di premiare chi fa bene immettendo liquidità e di punire i meno capaci togliendone. In questo modo il capitale si stacca dalla gestione passandola completamente in capo a chi crea il valore, mentre il primo ne diventa il controllore e il giudice. Certo i mercati azionari sono manipolabili, bolle, truffe e scorciatoie varie ci saranno sempre; come esisteranno sempre uomini che cercheranno di vivere alle e sulle spalle di altri, ma la natura del capitale ha ormai cambiato segno nella testa di ognuno. Da Moloch a lungo posto come causa di ogni perversione, cliché abusato e ormai stantio di una certa visione aristocratica del mondo; a ricchezza sempre più mobile e plasmabile nelle nostre idee e aspirazioni, tanto se buone e vittoriose quanto se cattive e perdenti.

Dall’entrepreneurship all’azione umana

Di converso l’entrepreneurship acquisisce finalmente la centralità che merita nelle relazioni sociali ad ogni livello. Si tratta in realtà di un ritorno alle origini come ben raccontato da Newton M. Rothbard nella sua monumentale storia del pensiero economico. L’economista americano evidenzia come per la più antica tradizione liberale francese, già a partire da Catillion poi fatta propria dalla scuola austriaca, l’entrepreneurship era il motore del processo economico; centralità per lungo tempo oscurata dal successivo liberalismo anglosassone, a partire da Hume e soprattutto Smith, responsabile dell’annacquamento dell’entrepreneurship nella più larga nozione di capitalista. Ma che cos’è l’entrepreneurship? A prima vista sembrerebbe la capacità in capo a poche persone di cogliere la necessità di un prodotto o servizio, e di mettere insieme mezzi e risorse tali per produrlo a un costo inferiore al prezzo di vendita, dove l’altezza di quel differenziale è direttamente proporzionale alla necessità di quel prodotto o servizio. Il successo, il profitto, non sono lo sterco del diavolo ma il faro che guida in modo non intenzionale quelle persone a fare, seguendo il proprio tornaconto, l’interesse collettivo. A ben vedere però questo processo – ed qui la chiave dello straordinario progresso materiale realizzato dall’economia di mercato – è il risultato finale e più eminente di un carattere ormai sempre più imperante nell’agire di ognuno. Certo nasciamo tutti con un patrimonio genetico ereditario fatto di qualità e mancanze, come siamo il frutto di un patrimonio famigliare magari esteso o pressoché inesistente, ma quelli sono i punti di partenza. Sussunto quei dati, ognuno di noi passa il resto della vita a sperimentare, rimescolare, lavorare incessantemente per migliorare quella condizione di partenza. Il famoso “right to the pursuit of Happiness” scritto nella dichiarazione d’indipendenza americana si esprime proprio in quel processo senza fine. Laddove “la felicità” non è attribuibile a un risultato quantitativo, ma al grado di libertà con cui perseguiamo attraverso le nostre azioni l’idea spesso mutevole che ci facciamo di noi stessi. E questo sentirci un po’ tutti “classe media” contenitore con al suo interno storie e condizioni agli antipodi, definita dai detrattori “società liquida”, è il vero emblema e tratto definente della modernità. Ben diversa era la condizione precedente, tanto l’aristocrazia quanto il clero ma anche la stragrande maggioranza sottomessa ai primi, percepiva sé stessa la propria condizione come un dato non mutabile; il fato, il destino, la volontà di dio o un disegno superiore, erano le diverse versioni con cui ognuno faceva propria quella condizione, chi osava metterla in discussione veniva semplicemente eliminato, si chiamasse Socrate, Spartaco, o Savonarola. Potremmo quindi definire l’entrepreneurship in senso lato come: la creazione di valori sempre contenibili attraverso il continuo mutamento; dove quel che viene giudicato di maggior valore o “migliore”, non è il prodotto di una gerarchia prestabilita o di un’autovalutazione, bensì un miglioramento certificato dal mercato. Il nuovo modo di fare impresa, di finanziarle, e le istituzioni che cresceranno con loro non saranno quindi un destino, ma il risultato, vedremo quanto soddisfacente, della transizione in capo ad ognuno, chiamato a farsi carico della propria condizione, sotto la guida di quelli che L. von Mises chiamava i caratteri a priori dell’azione umana. Da un’esistenza scandita da valori gerarchici, collettivi, ereditati, alla costruzione – attraverso il miglioramento dato dal costante confronto / competizione col prossimo – della propria autonoma e individuale gerarchia di valori espressione del nostro percorso esistenziale.

Riprendiamoci in nostro destino 

Nella nuova impresa ognuno vedrà crescere o meno le proprie chance nella misura in cui saranno necessari investimenti e formazione per produrre il bene richiesto dal consumatore, l’articolo 18 sparirà non perché sono mutati i rapporti di forza, come direbbero i teorici del secolo scorso, ma perché rimanere attaccati ad un’impresa incapace di creare un valore certificato dal successo nel mercato danneggia in primis tutti i partecipanti a quell’impresa, del resto quegli stessi lavoratori – assunto il vestito comune di consumatori – sono parte di quel giudizio. Vale la pena sottolineare la portata del mutamento, quel che sta avvenendo tra quei due lavoratori è una rivoluzione antropologica e morale, per tanti ha significato vedere la propria esistenza spezzata tra un prima e un dopo, non meravigliamoci delle difficoltà, dei conflitti, sarebbe assurdo se accadesse il contrario. Di fronte a certe sfide, quando la perseveranza sembra affievolirsi, può essere d’aiuto il ricordo della propria storia. Certo l’Italia è stata anche un impero decrepito, un’estensione geografica di signorie corrotte, finanche uno stato corporativo e aggressivo, ma anche il paradigma della Repubblica nella Roma antica, e dei Comuni poi culla del Rinascimento e delle arti e dei commerci, nonché del Risorgimento liberale su cui è nata la nostra patria. Per chi ha un patrimonio genetico, morale e materiale di tal fatta, basterebbe ponderarlo soppesando torti e meriti per ritrovare coraggio, motivazioni, e perché no l’orgoglio capace di indicarci la giusta direzione.

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UNA NUOVA IMPRESA PER LA RIPRESA

Sono passati più di sette anni dall’inizio della crisi, molte aziende sono scomparse e tra quelle rimaste non poche faticano a far tornare i conti. Per far fronte alla situazione tra le ricette disponibili la preferita è stata ed è la riduzione dei costi, ovviamente i costi altrui, così ognuno punta l’indice verso l’altro: per proprietà e dirigenza gli impiegati sono sempre troppi, mentre verso gli operai spicca il luogo comune dei “fannulloni” e “assenteisti”; a parti inverse la vox populi rimprovera ai dirigenti oltre al numero soprattutto alti stipendi e magri risultati, la stessa proprietà un tempo oggetto di ogni attenzione, oggi viene guardata con sospetto, troppo attenta ai profitti e decisamente meno presente quando serve investire. Questo clima di reciproca sfiducia non solo non aiuta la produttività ma neppure la razionalità e la lucidità, requisiti fondamentali per affrontare i momenti difficili; ci si dimentica: che certo i costi sono importanti, ma fare impresa significa innanzitutto creare valore. E intanto gli anni passano e con essi la speranza che tutto ritorni come prima, senza accorgersi che la crisi proprio questo vuole insegnarci, quel “prima” non era e non sarà più la soluzione, bensì sempre più il problema. Fiumi d’inchiostro per esoteriche quanto improbabili analisi sociologiche della globalizzazione, senza sfiorare neppure la questione che sta stravolgendo il nostro apparato produttivo, tanto semplice quanto radicale nei suoi effetti; il consumatore è tornato sovrano, il mondo è diventato il suo palcoscenico raggiungibile con un clic, può consultare e confrontare ogni offerta e, ogni giorno più scaltro, è disposto a pagare solo il valore aggiunto che riceve; non ultimo, stimolato dall’incredibile e costante innovazione tecnologica, è diventato sempre più volubile ed esigente. Del resto, basterebbe un minimo di introspezione per osservare come, quanto e tutti, in questi anni abbiamo affinato il nostro gusto, certo ognuno ha i propri pallini, ma per dirla alla Totò: è il totale che fa la somma. Poi però si torna in azienda e si vorrebbe che tutto fosse rimasto come prima, ogni cambiamento viene vissuto come lesa maestà, come se produrre e consumare non fossero due corni dello stesso problema. E non ci si lasci ingannare dalla differenza tra i beni capitale che acquistano e vendono le imprese e i beni che ognuno acquista e consuma, si tratta di un’unica catena magari sempre più lunga e intricata, ma la stessa, ormai simile anche nelle dinamiche. Se vogliamo accontentare questo nuovo dominus, che poi siamo tutti noi, bisogna fare tabula rasa della vecchia fabbrica: dimentichiamoci di quadri e dirigenti tanto zelanti nella trasmissione del comando ma ancor più attenti alle gerarchie e ai loro gradi, quanto approssimativi e superficiali nell’analisi dei risultati; ma dimentichiamo anche di impiegati e operai chiusi nei loro orti, dietro a siepi meglio curate dei frutti del loro operare; e infine dimentichiamo anche l’imprenditore, ma anche primo azionista, ma anche primo dirigente, convinto che basti girare il cappello che tanto l’impresa, magari ereditata o costruita ai tempi delle vacche grasse, come un buono del tesoro, darà a prescindere i suoi frutti. Al di là del sarcasmo quel modello che per tanti anni ha funzionato così bene, oggi deve essere ripensato; chi scrive è convinto che l’uscita dalla crisi passi da un profondo ridisegno di tutte le funzioni aziendali e delle relazioni che le legano, il risultato sarà un nuovo modo di fare impresa. Parlare di operai e impiegati generici, magari sognando che diventino intercambiabili, non ha alcun senso; ogni funzione presuppone uno specialista che crei almeno il valore richiesto dal mercato, sapendo che l’innovazione tecnologica ridefinirà, automatizzando a un costo inferiore, continuamente quella funzione. Non fare gli investimenti tecnologici richiesti significa utilizzare uno specialista per produrre un valore inferiore al proprio costo, ma allo stesso tempo ogni funzione deve essere riformata verso lavori a più alto valore aggiunto; la formazione non è un benefit ma un asset tanto decisivo quanto ogni altro investimento, anzi per dirla tutta è l’investimento a più alto rischio e quindi deve diventare oggetto di massima cura. Ai manager spetta l’organizzazione della catena del valore, non servono gerarchie spesso auto-referenziali, ma collegamenti efficienti tra chi crea e chi riceve il valore, il cliente, la soddisfazione di quest’ultimo e non l’obbedienza al manager sono l’obiettivo. Per ottenere quel risultato i manager sono chiamati a costruire sistemi di feedback in grado di misurare e correggere continuamente quel rapporto, la meritocrazia non è una scelta etica per anime belle bensì una necessità economica. Siamo a un punto delicato, creare valore nell’economia della divisione della conoscenza e tutt’altra cosa rispetto alla vecchia divisione del lavoro. Mentre per quest’ultima bastava dirigerne gran parte della “forza” lavoro, i così detti blue collar, verso i movimenti richiesti per la produzione del bene, e quindi un buon sistema di comando e un certo grado di coercizione erano più che sufficienti al raggiungimento del fine; così come visto l’esiguo numero di white collar della vecchia fabbrica la cooptazione costruita dal clima “famigliare” che si respirava in tante aziende risultava efficace, con la divisione e direzione della conoscenza le cose vanno diversamente. Per creare valore attraverso l’applicazione di competenze tecniche o commerciali non basta ripetere meccanicamente ciò che si sa già ad ogni situazione, come una forza su una leva, ma un’attiva rielaborazione delle proprie competenze in funzione della situazione, dove il valore apportato non è un “dato” preconfezionato da aggiungere, ma il “risultato” sempre nuovo e verificabile solo a posteriori. Per ottenere questo serve un grado di partecipazione all’impresa, da parte di quelli che ho definito specialisti, non comparabile alla vecchia struttura industriale. I modi per raggiungere questo elevato grado di partecipazione sono diversi: lo si può fare attraverso le rappresentanze collettive dei vari protagonisti, o azienda per azienda, di certo non può essere lasciato al caso. Alle proprietà, ai manager, agli stessi specialisti, spetta l’onere di trovare questa nuova sintesi, dialogo, confronto, voglia di rimettersi in discussione ne sono il presupposto. Veniamo infine alla funzione più delicata, l’imprenditore. In un mercato così dinamico e competitivo l’illusione dell’uomo solo al comando, magari sull’onda di vecchi successi, rischia di rimanere tale, e soprattutto di precedere brutti risvegli. Certo dev’essere uno, ma come un buon direttore d’orchestra deve prestare attenzione agli archi che all’interno dell’impresa lo informano dei costi, ma ancora più vigile deve essere verso i fiati che gli raccontano delle occasioni e dei pericoli che pullulano nel mercato, e solo a quel punto imprimere il movimento all’orchestra. Fuor di metafora l’imprenditore è un mestiere difficile, anzi il più difficile, può coincidere con la proprietà ma lo può fare anche l’amministratore delegato, quel che è certo è che non può essere uno status, chi decide sarà giorno per giorno attraverso l’analisi dei risultati il mercato. La crisi è stata così lunga che ormai tutti conosciamo l’etimologia greca della parola, per rompere con il passato e per cambiare veramente, non solo non bisogna guardare agli altri ma a se stessi, serve un cambio di cultura, non si tratta di leggere libri, ma di ripensarsi, di ridefinire le proprie idee, e con esse i priori valori, modificare di conseguenza i propri costumi, le proprie abitudini e infine i priori comportamenti quotidiani; a quel punto e solo a quel punto, la crisi da costante affanno diverrà un piacevole ricordo.

IL REBUS DELLA COMPETITIVITA’

Sono più di trent’anni che il nostro paese perde competitività, precisamente da quando la competition da locale e protetta via via è diventata globale e cutthroat (spietata). Essere competitivi vuole dire essere in grado di fornite beni e servizi, a parità di tutte le altre condizioni, ad un prezzo inferiore della concorrenza. Quando a non essere competitiva è una singola impresa, il problema è riducibile ad un utilizzo di risorse naturali, lavoro e beni capitale, poco efficiente per la produzione di un determinato bene/servizio da parte della medesima. Quando invece è un intero paese ad essere nel suo complesso inefficiente, significa che i beni capitale (beni, servizi, capitale umano) forniti dallo stato al sistema produttivo rispetto alle tasse richieste, hanno un’incidenza tale sui prodotti/servizi messi sul mercato dall’intero apparato produttivo, da renderlo mediamente meno competitivo. Ovviamente in un apparato produttivo così complesso come quello italiano le eccellenze rimangono, e con esse le differenze si ampliano, non c’è dubbio però che mediamente il sistema si sia contratto. Per un lungo periodo si è limitato ma anche eluso il problema agendo come si dice in gergo sul lato della domanda (stampare soldi per far bere il cavallo sperando che il cavallo si depurasse dalla inefficienze da solo), quando però con la moneta unica la svalutazione non è più stato uno strumento disponibile per tenere sotto controllo il debito, non è rimasto che agire sul lato dell’offerta (ristrutturare le singole inefficienze ad una ad una), con l’ulteriore vincolo di un enorme debito da ridurre e relativi interessi da pagare, che tendono a deprimere ulteriormente l’economia. Qui sta il rebus, pensiamo ad esempio all’intervento più classico sul lato dell’offerta, le tasse: prima bisogna ridurle e con esse le relative spese improduttive che finanziavano (che per chi le riceve sono redditi), poi le imprese diventate più competitive grazie a quella riduzione di tasse, si espanderanno e produrranno quel reddito e oltre persi all’inizio. Ma tra questo “prima” e questo “poi” c’è un paese già in crisi che si avvita, e un’opinione pubblica indisponibile ad accettare quei costi sociali, c’è in sostanza l’instabilità e l’inefficacia della politica (di destra e di sinistra) degli ultimi vent’anni. L’unico modo per uscire dal cul de sac, è una politica economica capace di gestire tanti interventi “piccoli”, magari elettoralmente meno visibili, finanziati con un impatto sociale contenuto e pensati in modo da ridurre al minimo il tempo che intercorre tra il “prima” e il “poi”. Tra i tanti possibili quello che ritengo avrebbe la maggiore efficacia, è un intervento di riduzione generalizzato del cuneo previdenziale dei lavoratori dipendenti e para-subordinati. Immaginiamo una riduzione di 3 punti a favore delle imprese, una contestuale disponibilità per ogni lavoratore di quel reddito fornito dallo stato per finanziare il proprio fondo pensione integrativo (per chi non ce l’ha di accenderlo obbligatoriamente, ma scegliendo liberamente il fondo come prevede la legge 252/2007) e una equivalente riduzione di spesa da parte dello stato. Questa misura avrebbe tre vantaggi: 1) è un intervento relativamente piccolo, costa circa 10 miliardi e per un bilancio dello stato come il nostro può essere coperta efficacemente (senza aumentare il deficit) e con ridottissimo impatto sociale. 2) Quel denaro fresco verrebbe immediatamente rimesso sul mercato da istituti finanziari specializzati, ed è ragionevole prevedere che le imprese diventate più competitive grazie alla riduzione del costo del lavoro, e quindi più desiderose di investire, ne sarebbero le maggiori beneficiarie, riducendo al minimo quella differenza tra “prima” e “poi” sopra evidenziato. 3) Si porrebbero delle fondamenta più solide allo sviluppo della previdenza complementare, unica vera risposta per riportare il tasso di sostituzione delle future pensioni al 70/80% del vecchio regime retributivo. Quest’ultimo punto nel lungo periodo è a mio avviso il più importante. Anziché agitare inesistenti spauracchi contro la previdenza complementare, potrebbe essere l’occasione per un vero corso pratico di educazione finanziaria per l’intero paese, presupposto necessario per fare dell’Italia, come si dice in gergo, un “paese a capitalismo maturo”. Gli italiani scoprirebbe che i rischi nella previdenza complementare non sono superiori a quelli che si corrono nella previdenza pubblica, come dimostrano gli ultimi vent’anni di riforme e la sostanziale simmetria assunta dai due sistemi, e soprattutto che quando si parla di futuro, l’idea di eliminare i rischi, come una certa politica demagogica vorrebbe far credere, è semplicemente risibile, quello che si può fare è affrontarli in modo cosciente ognuno secondo la propria propensione. Scoprirebbero inoltre che la previdenza complementare offre incentivi fiscali veramente considerevoli, e potrebbe essere l’occasione per fare incontrare la domanda di capitale dell’economia di mercato, con rischi sociali limitati, con l’offerta di risparmio dei comuni cittadini. Infine, questo trasformerebbe il pezzo più pregiato del nostro welfare da un diritto astratto sotto cui per tanti anni si sono coperti i peggiori e irresponsabili comportamenti collettivi e individuali, in una costruzione collettiva, che senza rinunciare ad un certo grado di solidarietà, incentiva comportamenti individuali responsabili, trasferibili proprio perché equi di generazione in generazione.