SINOSSI
L’individualismo metodologico riconosce che la nascita di istituzioni quali: lo stato, il linguaggio, il diritto, non sono il frutto di un piano collettivo concordato, ma il risultato non intenzionale di azioni individuali guidate dall’interesse del singolo: “homo non intelligendo fit omnia” direbbe G.B. Vico. Ne consegue la necessità di limitare il potere della ragione per la sua costituzionale incapacità a comprende e prevedere fenomeni sociali molto complessi. Quando il collettivismo o l’interventismo pretendono di ricostruire da capo interi fenomeni sociali e controllarli su basi razionalistiche li distruggono, la pianificazione economica ne è l’esempio più eminente. Il grande sviluppo della scienza economica tra le scienze sociali, si deve proprio a questo metodo individualistico. L’analisi di fenomeni sociali come: l’utilità marginale, la moneta, la concorrenza o la divisione del lavoro e della conoscenza – i quali non sarebbero comprensibili senza questo approccio all’indagine – vengono spiegati senza la rinuncia al carattere individuale di ogni azione, ma al riparo da ogni forma di psicologismo o di storicismo. La tradizione è il mezzo capace di raccogliere e per così dire “dirigere” i fini individuali, senza ridurli al fine di un qualche individuo, gruppo sociale, entità metafisica o religiosa. Quei fini individuali, grazie alla tradizione e al suo processo di selezione (trial and error), diventano senza alcuna intenzione ex ante quegli istituti economici codificabili come tali solo ex post. Viceversa, la hybris razionalista delle dottrine collettiviste o interventiste, convinte di potere guidare e dirigere attraverso il metodo scientifico naturalistico tutti i fenomeni sociali, non solo ne bloccano l’evoluzione ma finiscono per mettere a repentaglio l’intera civiltà umana.
CITAZIONI
Carl Menger – Sul metodo delle scienze sociali – (pag. 136 – 138 e 164 – 165 e 166 – 167)
Primo: soltanto una parte dei fenomeni sociali mostra un’analogia con gli organismi naturali. Gran parte delle formazioni sociali non è il risultato di un processo naturale comunque inteso, ma il risultato di un’attività degli uomini avente per scopo la loro fondazione e il loro sviluppo (l’accordo fra i membri della società oppure la legislazione positiva). Anche i fenomeni sociali di questo tipo mostrano per lo più una adeguatezza delle parti rispetto al tutto, che non è la conseguenza di un processo naturale, “organico”, ma il risultato di un calcolo umano che rende utilizzabili per lo stesso scopo una molteplicità di mezzi… Perciò se si parla di un'”origine organica” dei fenomeni sociali, o meglio di una parte di essi, ciò può basarsi soltanto sul fatto che una parte dei fenomeni sociali è il risultato di una volontà comune orientata alla loro fondazione (la convenzione, la legislazione positiva, ecc.), mentre un’altra parte è il risultato irriflessivo di attività umana (ossia il risultante non intenzionale di esse) tendenti a scopo essenzialmente individuali. Nel primo caso i fenomeni sociali sorgono dalla volontà comune tesa alla loro fondazione (sono il prodotto intenzionale di essa); nel secondo caso essi nascono senza una volontà comune tesa alla loro fondazione, come il risultato non intenzionale di attività umane individuali (che perseguono interessi individuali). Solo questo fatto finora pressoché sconosciuto (e assolutamente non una qualche analogia rigorosamente fondata con gli organismi naturali!) ha permesso di definire “spontanea”, “naturale” e persino “organica” l’origine dei fenomeni sorti per via irriflessa, in contrapposizione agli altri (quelli fondati in modo riflesso, per mezzo della volontà comune…). Lo stesso vale per l’origine dello stato. Chiunque sia imparziale non dubiterà che tramite un patto fra un certo numero di persone che hanno a disposizione un territorio possono essere gettate in circostanze favorevoli le basi di una comunità suscettibile di sviluppo. Non si può nemmeno ragionevolmente dubitare che nuovi stati capaci di svilupparsi potrebbero venir fondati, anche senza un accordo fra tutti i membri di esso, sulla base dei rapporti di potere naturale della famiglia, di alcuni potenti o di gruppi di potenti. La teoria secondo cui la formazione sociale che definiamo stato sorgerebbe sempre per via “organica” è perciò unilaterale. Altrettanto erronea e ancor più antistorica, è la teoria secondo cui tutti gli stati sono sorti originariamente tramite un patto diretto alla loro fondazione, o dall’azione di alcuni potenti o gruppi di potenti coscientemente rivolta a quello scopo. Non si può cioè dubitare che, perlomeno nelle epoche primitive dello sviluppo umano, gli stati sono sorti perché alcuni capi famiglia, che abitavano vicini senza alcun legame politico, raggiunsero una comunità e una organizzazione statali, anche se non ancora sviluppate, senza uno specifico patto, soltanto attraverso la conoscenza progressiva del proprio interesse individuale che si sforzavano di perseguire (i più deboli si sottomettevano volontariamente alla protezione dei più forti, i vicini si aiutavano con mezzi efficaci quando ritenevano che uno di loro fosse oppresso in circostanze presumibilmente pericolose anche per il benessere degli altri abitanti di un territorio ecc.). Di fatto, la convenzione e i rapporti di potere di vario tipo diretti a determinare la comunità come tale possono in qualche caso aver favorito quel processo di formazione dello stato. Ma la conoscenza corretta e l’attività di alcuni capi famiglia vicini orientata all’interesse individuale hanno sicuramente in altri casi condotto alla formazione dello stato anche senza quell’influsso, anzi persino senza alcuna considerazione individuale per l’interesse generale. Anche quella formazione sociale che chiamiamo stato, per lo meno nelle sue forme originarie, è stata la risultante non prevista di attività al servizio dell’interesse individuale. Nello stesso modo si potrebbe dimostrare che altre istituzioni sociali quali il linguaggio, il diritto, il costume, ma in particolari numerose istituzioni economiche, sono sorte senza un patto espresso, senza costrizione legislativa, persino senza alcuna considerazione dell’interesse comune, soltanto per l’impulso di interessi individuali e come risultante della loro attività. L’organizzazione della circolazione delle merci in mercati periodicamente ricorrenti e situati nello stesso luogo, l’organizzazione della società tramite la distinzione delle professioni e la divisione del lavoro, gli usi commerciali, e via di seguito, tutte istituzione grandemente utili per l’interesse comune, e la cui origine sembra a prima vista doversi necessariamente ricondurre alla convenzione o al potere dello stato, non sono originariamente il risultato di accordo, contratto, legge o particolare considerazioni dei singoli per l’interesse pubblico, ma il risultato di attività di servizio di interessi individuali. E’ chiaro che il potere legislativo s’inserisce non di rado in questo processo di mutamento “organico”, e che perciò ne affretta o ne modifica i risultati. Ma gli inizi della formazione sociale, conformemente ai fatti, possono consistere soltanto nell’origine irriflessiva dei fenomeni sociali. Nel corso dello sviluppo sociale appare sempre più chiaro l’intervento cosciente dei poteri pubblici nelle relazioni sociali. Accanto alle istituzioni di natura “organica” compaiono quelle che sono il risultato di un’azione sociale consapevole, e inoltre istituzioni che, nate per via organica, vengono perfezionate e trasformate dall’attività dei pubblici poteri ispirata a scopi sociali. Il denaro, il mercato attuale, il diritto attuale, lo stato moderno, ecc., ci offrono così molti esempi di istituzioni che si mostrano come il risultato dell’effetto combinato di potenze individualmente e socialmente teleologiche: in altre parole come il risultato di fattori “organici” e di fattori “positivi”. Se ora ci interroghiamo sulla natura generale di quel processo a cui devono la propria origine i fenomeni sociali che non sono il risultato di fattori social-teleologici ma il risultato irriflessivo del movimento sociale – processo che può essere definito sempre “organico” contrariamente alla nascita dei fenomeni sociali per via di legislazione positiva – non ci saranno più dubbi sulla risposta. La caratteristica della nascita social-teleologica dei fenomeni sociali consiste nell’intenzione della società di fondarli, nel fatto che essi sono il risultato intenzionale della volontà comune o della società pensata come soggetto agente o dei suoi potentati. I fenomeni sociali di origine “organica” si caratterizzano invece per essere la risultante inintenzionale di atti individuali di membri del popolo, ossia che perseguono interessi individuali. Pertanto, al contrario delle formazioni sociali precedentemente delineate essi sono la risultante inintenzionale di fattori individual-teleologici. Con ciò, crediamo di avere esposto non soltanto la vera natura di quel processo al quale deve la propria origine una gran parte dei fenomeni sociali, e che finora è stata descritta soltanto con oscure analogie o locuzioni insignificanti, ma di aver ottenuto nel contempo anche un altro importante risultato per la metodologia delle scienze sociali. Abbiamo già sottolineato che una lunga serie di fenomeni economici, comunemente concepiti come “formazioni sociali” d’origine “organica” (per esempio i prezzi di mercato, i salari, i tassi d’interesse, e via di seguito), sorgono proprio nello stesso modo in cui sorgono le istituzioni sociali cui abbiamo fatto riferimento in questo capitolo. Infatti, anch’essi non sono di regola il risultato di cause social-teleologiche, ma la risultante inintenzionale di numerose azioni dei soggetti economici che perseguono interessi individuali. Anche la comprensione teorica della loro essenza e del loro movimento può essere perciò raggiunta in maniera esatta soltanto seguendo la stessa via di ciascuna delle formazioni sociali ricordate, vale a dire riconducendole ai propri elementi, e ai fattori individuali che li hanno prodotti, e indagando le leggi secondo cui questi fenomeni complessi dell’economia umana scaturiscono dai propri elementi. Ma questo, non importa sottolinearlo, è il metodo che abbiamo sopra definito come il più adeguato all’indirizzo esatto della ricerca teorica nell’ambito dei fenomeni sociali. I metodi per comprendere in maniera esatta l’origine delle formazioni sociali sorte per via “organica” e metodi per risolvere i problemi fondamentali della dottrina economica esatta sono essenzialmente identici.
Karl R. Popper – La società aperta – (pag. 350 e 352)
“Gli uomini non si convertono, se messi insieme, in un altro genere di sostanza”. Quest’ultima osservazione di Mill mette in luce uno dei più validi aspetti dello psicologismo, cioè la sua giusta opposizione al collettivismo e all’olismo, il suo rifiuto a lasciarsi condizionare dal romanticismo di Rousseau e di Hegel, da una volontà generale o da uno spirito nazionale o, infine, da una mente di gruppo. Lo psicologismo, a mio avviso, è giusto solo nella misura in cui insiste su quello che si può chiamare “individualismo metodologico” in contrapposizione al “collettivismo metodologico”; esso giustamente sostiene che il “comportamento” e le “azioni” dei collettivi, come gli stati o i gruppi sociali, devono essere ricondotti al comportamento e alle singole azioni degli esseri umani. Ma la convinzione che l’adozione di un metodo individualistico siffatto implichi l’adozione di un metodo psicologico è erronea, anche se a prima vista può apparire senz’altro plausibile… Bisogna riconoscere che la struttura del nostro ambiente sociale è, in un certo senso, fatta dall’uomo; che le sue istituzioni e tradizioni non sono il lavoro né di dio né della natura, ma i risultati di azioni e decisioni umane, ed alterabili da azioni e decisioni umane. Ma ciò non significa che esse siano tutte coscientemente progettate e spiegabili in termini di bisogni, speranze e moventi. Al contrario, anche quelle che sorgono come il risultato di azioni umane e coscienti e intenzionali sono, di regola, i sottoprodotti indiretti, inintenzionali e spesso non voluti di tali azioni. “Soltanto un piccolo numero di istituzioni sociali sono coscientemente progettate, mentre la stragrande maggioranza di esse è semplicemente “cresciuta”, come risultato imprevisto di azioni umane”… Il fatto che lo psicologismo sia costretto a operare con l’idea di una origine psicologica della società costituisce, a mio avviso, un decisivo argomento contro di esso. Ma non è il solo. Forse la più importante critica allo psicologismo è che esso non riesce a comprendere il compito fondamentale delle scienze sociali esplicative. Questo compito non è, come credono gli storici, la profezia del futuro corso della storia. E’ piuttosto quello della scoperta e spiegazione delle meno ovvie dipendenze che si riscontrano nell’ambito della sfera sociale. E’ piuttosto quello della scoperta delle difficoltà che si pongono lungo la via dell’azione sociale – lo studio, per così dire, della pesantezza, dell’elasticità o della fragilità della materia sociale, della sua resistenza ai nostri tentativi di modellarla e di manipolarla. Al fine di chiarire questo punto, illustrerò brevemente una teoria che è largamente condivisa, ma che presuppone quello che consideriamo precisamente il contrario del vero fine delle scienze sociali: quella che chiamo “la teoria cospiratoria della società“. Essa consiste nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di un tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che deve essere prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo. Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva, naturalmente, dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui o di gruppi di potenti. Questa teoria ha molti sostenitori ed è anche più antica dello storicismo (che, come risulta dalla sua forma teistica primitiva, è un derivato della teoria della cospirazione). Nelle forme moderne esso è, come lo storicismo moderno e come un certo atteggiamento moderno nei confronti delle “leggi naturali”, il tipico risultato della secolarizzazione di una superstizione religiosa… L’errore dello psicologismo consiste nel pretendere che l’individualismo metodologico nel campo delle scienze sociali comporti la necessita di ridurre tutti fenomeni sociali e tutte le regolarità sociali a fenomeni psicologici e a leggi psicologiche. Il pericolo di questa pretesa è la sua inclinazione verso lo storicismo, come abbiamo visto.
Friedrich A. von Hayek – Conoscenza, mercato pianificazione – (pag. 194 – 196 e 250)
In realtà, la pretesa che ogni cosa, compresa la crescita della mente umana, debba essere sottoposta a controllo consapevole, è essa stessa segno della sufficiente incomprensione del carattere generale delle forze che costituiscono la vita della mente e della società umana. Questa pretesa rappresenta lo stadio ultimo a cui pervengo, e quelle forze autodistruttive, operanti nella nostra moderna civiltà “scientifica”, e quell’abuso della ragione, il cui sviluppo le cui conseguenze costituiscono il tema centrale della analisi storica dei prossimi capitoli. Dal momento che la crescita della mente umana rappresenta, nella sua forma più generale, il problema centrale comune a tutte le scienze sociali, è comprensibile che proprio su questo terreno le opinioni si dividano nella maniera più netta. Da questa contrapposizione emergono due atteggiamenti fondamentalmente diversi e inconciliabili: da una parte la sostanziale umiltà dell’individualismo, che si sforza di comprendere per quanto è possibile, i principi in base ai quali si è di fatto realizzata quella combinazione di sforzi di singoli individui da cui ha tratto origine la nostra civiltà, e che di questa comprensione spera di potersi servire per creare condizioni favorevoli a una crescita ulteriore; dall’altra, la hybris del collettivismo, che aspira alla direzione consapevole di tutte le forze sociali. L’approccio individualistico, consapevole dei limiti strutturali della singola mente umana, cerca di mostrare come l’uomo che vive in società sia in grado, utilizzando le varie risultanti del processo sociale, di accrescere i suoi poteri con l’ausilio delle conoscenze che sono implicite in queste risultanti e delle quali egli non è mai interamente consapevole. L’individualismo ci fa capire che la sola “ragione” che, da qualsiasi punto di vista, può essere considerata superiore alla ragione dei singoli non esiste indipendentemente dal processo interindividuale in cui, per mezzo di strumenti impersonali, le conoscenze di tante generazioni del passato e quelle di milioni di persone che appartengono alla generazione attuale si combinano e si adattano le une alle altre; e ci fa anche capire che questo processo è la sola forma in cui potrà mai esistere il sapere umano inteso come un tutto. Il metodo collettivistico, invece, non si accontenta della conoscenza parziale che di questo processo è possibile acquisire dall’interno, e che di fatto rappresenta tutto ciò che l’individuo può conseguire, ma fonda la sua richiesta di controllo consapevole sul presupposto che sia possibile comprendere questo processo nella sua totalità e utilizzare tutte le conoscenze in una forma sistematicamente integrata. Il collettivismo metodologico, pertanto, conduce direttamente al collettivismo politico; e anche se, da un punto di vista puramente logico, il collettivismo metodologico e quello politico sono due cose distinte, non è difficile rendersi conto del fatto che il primo porta al secondo e che, in effetti, senza il collettivismo metodologico il collettivismo politico sarebbe privo della sua base intellettuale: se si lascia cadere la pretesa che la ragione individuale consapevole possa cogliere tutti i fini e abbracciare tutto il sapere della “società” e della “umanità”, resta senza fondamento l’idea che questi fini si possano conseguire meglio mediante una direzione centrale consapevole. Se viene perseguita con coerenza, questa concezione conduce necessariamente a un sistema in cui tutti i membri della società divengono meri strumenti della singola mente direttrice in cui vengono distrutte tutte le forze sociali spontanee a cui si deve la crescita della mente. In realtà può darsi che il compito di gran lunga più difficile della ragione umana sia proprio quello di comprendere razionalmente i propri limiti; ma questo è anche uno dei compiti più importanti che essa si trova ad affrontare. E’ essenziale, per la crescita della ragione, che come individui ci inchiniamo a forze e obbediamo a princìpi che non possiamo sperare di capire completamente, ma dai quali dipendono il progresso e persino la preservazione della civiltà… Anche se si è sorvolato su ciò che è un legame essenziale nella nostra analisi, ritengo tuttavia che l’economia, per ciò che è implicito nel suo modo di argomentare, si sia avvicinata più di ogni altra disciplina a dare una risposta al quesito centrale per tutte le scienze sociali, e cioè in che modo la combinazione di frammenti di conoscenza, di cui dispongono individui diversi, può portare a risultati che, per poter essere ottenuti consapevolmente, richiederebbero un grado di conoscenza e di informazione in colui che fosse chiamato a prendere la decisione che, in realtà, nessuna persona potrà mai possedere. La dimostrazione che, in questo senso, le azioni spontanee degli individui determineranno, sulla base di condizioni che noi possiamo specificare, una distribuzione delle risorse che può essere concepita come se fosse il risultato di un singolo piano, sebbene in realtà nessuno lo abbia mai formulato, è secondo me una risposta al problema della “mente sociale”.
Friedrich A. von Hayek – L’abuso della ragione – (pag. 147)
Sebbene la civiltà umana sia il risultato nel complesso delle coscienze dei singoli, tuttavia non dipende dall’esplicita o cosciente combinazione di tutte queste conoscenze in un unico cervello, ma dalla loro oggettivazione in simboli che utilizziamo senza comprenderli in abiti e istituzioni, in utensili e concetti, l’uomo che vive in società può costantemente trar profitto da un complesso di conoscenze che non può essere integralmente posseduto né da lui né da alcun altro essere umano individualmente considerato. Molte delle maggiori realizzazioni umane non sono il risultato di un pensiero coscientemente diretto, e ancor meno il prodotto del deliberato coordinamento degli sforzi di molti individui, ma di un processo in cui il singolo svolge un ruolo che non può mai interamente comprendere. Esse sono superiori all’individuo precisamente perché risultano da una combinazione di conoscenza molto più vasta di quella che una mente singola può padroneggiare.
Friedrich A. von Hayek – Autobiografia – (pag. 58 – 59)
Il capitalismo presuppone che, oltre al razionalismo, possediamo anche una tradizione morale, che è stata messa alla prova dall’evoluzione, ma non è stata creata dalla nostra intelligenza. La proprietà privata non è stata una nostra creazione consapevole. E non abbiamo nemmeno inventato la famiglia. Si tratta di tradizioni, essenzialmente tradizioni religiose. Sono agnostico, proprio come Mises, ma devo ammettere che queste tradizioni che sono state decisive, che hanno fatto sì che gli uomini fossero in grado di costruire un ordine che estende la loro visione, non possono essere il risultato delle nostre capacità intellettuali. Esse, secondo me, sono il risultato della selezione di gruppo e non di quella individuale: qualcosa che possiamo interpretare ex post. Ma il postulato di Mises – se siamo assolutamente razionali e decidiamo tutto, possiamo vedere che il socialismo sbaglia – è un errore. Se rimaniamo strettamente razionalisti e utilitaristi, possiamo sistemare ogni cosa a nostro piacere. Mises non è quindi mai riuscito a liberarsi di quella filosofia di base, al cui centro siamo cresciuti tutti: la ragione può fare qualsiasi cosa meglio della pura tradizione. Da questo elemento egli non riuscì mai a liberarsi. Anche se ho accettato quasi tutto della critica di Mises al socialismo, adesso capisco perché quella critica non produsse molti effetti. Il motivo di ciò è da ricercarsi nel fatto che, nel caso di Mises, la critica al socialismo ha continuato ad essere basata sull’errore fondamentale del razionalismo e del socialismo: ovvero che siamo tutti dotati del potere della ragione, che ci permette di sistemare qualsiasi cosa razionalmente. Questo assunto è contraddittorio, come se prima ci venisse detto che non si possono fare certe cose e poi che, visto che siamo tutte persone dotate di ragione, dobbiamo cercare di fare le stesse cose che ci veniva detto prima di non poter fare.