Premessa personalissima
Non che ami molto parlare di me e non certo per mancanza di vanità, a schernirmi piuttosto è quel retrogusto prosaico e un po’ stantio inevitabilmente assunto dai ricordi catturati e vincolati entro i canoni di uno scrivere non artistico. Tuttavia, questo libro è così intrecciato col mio percorso esistenziale da costringermi ad abbandonare ogni riserva estetica; almeno per alcuni crocevia proverò a spiegare il maturare e mutare delle idee a cui mi sono appassionato attraverso i fatti della mia vita, proprio perché capaci di esprimere meglio di tante parole il senso di quelle scelte. Figlio degli ultimi mezzadri di un piccolo borgo della pedecollina emiliana, cresciuto in una famiglia dove l’analfabetismo proteggeva da ogni “educazione culturale”, non sarò mai abbastanza grato ai miei genitori, liberali per istinto, per avermi regalato un’infanzia e una giovinezza “cruda e bucolica” bellissima. Fin dalla preadolescenza ho imparato a decidere per me stesso, in famiglia esisteva un unico limite alla libertà individuale: portare a casa la pelle; così imparai ad essere responsabile per essere libero e riuscii a passare indenne dalle innumerevoli peripezie comuni in tempi dove ancora la distanza precludeva e proteggeva la gioventù da ogni forma di controllo. Ero e rimango un “ex ragazzo degli anni Ottanta non pentito”, non potrei e neppure mai vorrei affrancarmi completamente da tutte le idiosincrasie e le mode dell’epoca a cui rimango legato da un’invincibile nostalgia. Tuttavia a un certo punto – avevo quasi ventiquattro anni e lavoravo da quando ne avevo diciotto – vuoi perché stanco di fare l’operaio, vuoi per noia, vuoi perché quei riti giovanili sempre più somigliavano a quella coazione a ripetere che imparai poi il vecchio Freud accomunava alla morte – ed io amavo ed amo la vita – girai le spalle a tutto ciò per diventare inviso alla mia epoca, alla mia generazione, alla mia famiglia, per finire estraneo a quel mondo che avevo tanto amato. In quell’anno millenovecentoottantanove, vero spartiacque della storia come anche del mio tempo, ho deciso di costruirmi a forza un’istruzione, con l’ambizione un po’ naif di cercare nella cultura il senso della vita smarrito in quei riti giovanili. Per sei anni studio e lavoro hanno assorbito ogni attimo della mia vita, più che istruirmi mi hanno insegnato l’amore per la conoscenza, da cui sono scaturiti i tanti incontri appassionati dei trent’anni successivi. Tanti ne sono passati da allora, durante i quali per lo più filosofia ed economia politica, ma la cultura in genere, hanno occupato gran parte del mio tempo libero. Quell’originale inquietudine ha guidato il dubitare e mutare delle mie idee, per portarle – oramai più di dieci anni fa – dallo status dato per “nascita” socialdemocratico, all’incontro con quella che è diventata la mia condizione per “scelta” il liberalismo, finalmente in grado di tenere insieme il rigore del pensarci come singoli col ben agire in un contesto sociale comune, individuo libero appunto. Ma andiamo con ordine. Studente insoddisfatto delle peripezie dialettiche e storiciste marxiane volte a tentare di giustificare quel paradosso del valore cruccio di tanti economisti, altresì di Marx resistevano la sua verve intellettuale, quella vis polemica da cavaliere solitario pronto a combattere contro ogni forma di ingiustizia e sfruttamento proprio di chi come me faticava a trovare un posto nella vita. Che sorpresa scoprire nei “Manoscritti” marxiani del 1844 quell’alienazione così ben descritta dal filosofo, da me sentita per così dire in corpore viri, quando da giovane operaio trascorrevo le giornate misurando il tempo a mente con la precisione di un orologio mediante il ritmo scandito dal montaggio; che rabbia e che desiderio di ribellarsi ad un nemico indefinito che assieme al mio tempo si mangiava anche l’anima. A salvarmi dalle scorciatoie ideologiche furono gli appassionati studi di Spinoza e Nietzsche che assieme a Kierkegaard mi educarono a tenermi ben saldo sul singolo individuo; la sua complessità, quel suo essere un risultato, fine a sé stesso, indisponibile a trasformare le sue peripezie esistenziali in parti per così dire necessarie dei tanti sistemi metafisici conosciuti in quel periodo di divagare filosofico. Altrettanto salvifica fu la successiva esperienza sindacale, con la sua urgenza di trasformare quelle teorie in prassi. La cura venne dal contatto con le persone in carne ed ossa e la loro quotidiana ricerca di riscatto per una vita più piena e inclusiva, la necessità che ad ognuno – proprio perché tutti differenti – fosse offerta una chance per affermare la propria individualità in una comunità, che non solo non crescesse sacrificando gli individui, ma al contrario diventava sempre più prospera nella misura in cui favoriva la capacità di esaltarne ogni singolarità, questa la base morale di quell’esperienza. In un primo momento il grimaldello per quel fine mi parve essere la conoscenza – ben cosciente dei suoi potenti effetti sperimentati su me stesso – per quel tenere insieme il suo crescente ruolo nella catena della creazione del valore economico con l’indubbia centralità che la medesima assurgeva nel percorso individuale di ognuno, così ricchezza materiale e morale mi parvero in armonia. Ma gli uomini sbagliano, cambiano idea, solo ex post sanno cos’è verità e cos’è errore, certo continuamente vi tendono, ma solo fino a un certo punto arrivano a farla propria, per i limiti entro cui è circoscritta ogni esistenza. Quando anche per la conoscenza, come ogni valore nato da un’antitesi – il famoso nietzscheano pregiudizio dei filosofi, ma aggiungerei anche degli economisti – iniziarono ad emergere le prime incongruenze fu proprio l’incontro con i campioni del liberalismo, divorati da cima a fondo in alcuni anni, a far perdere al valore la forma di paradosso. Quel suo voler essere pietra di paragone di tutto il resto, oggettivo e puntuale, da punto di forza – su cui cozzarono puntualmente gli economisti classici con i loro tentativi di ricondurre il valore a lavoro prima, poi a utilità e rarità, finanche a equilibrio matematico nei successivi neoclassici inglesi e francesi – condusse il valore a diventare pietra d’inciampo di una realtà irriducibile alla sola ragione raziocinante. A cambiare per così dire il campo da gioco del pensiero economico fu la versione austriaca dell’economia neoclassica – raccogliendo le migliori intuizioni dell’”Illuminismo scozzese” – per quel suo porre al centro dell’analisi il soggetto agente, vero e unico protagonista nella creazione del valore, sempre fluttuante tanto come consumatore con i suoi gusti e bisogni espressione della sua precarietà esistenziale, quanto come produttore pronto a tutto pur di soddisfarli e portare a casa il suo maggior profitto, anche a ricercarlo – spinto dal pungolo della concorrenza – attraverso le esperienze e le conoscenze più disperse di cui si nutre senza fine l’economia di mercato. Non c’era più un “bene” da separare dal “male”, anzi: quelle debolezze, quegli errori, quelle correzioni, diventeranno fonte inesauribile di scoperte e miglioramenti marginali senza fine nella costruzione sociale messa a punto dal liberalismo per favorire l’espressione di ogni potenzialità individuale; altresì viene meno ogni separazione / subordinazione tra economia e politica come pure tra diritto e morale. A questo punto quei filosofi tanto amati proprio perché intenti a speculare sull’uomo più che sull’umanità, sulla vita più che sul sistema, si irradiarono di nuova luce. Così di Spinoza mi fu possibile mettere da parte la sua costruzione teologica e geometrica, formidabili per l’epoca in cui nacquero meno interessanti per la nostra, per esaltare la sua raffinatissima analisi degli affetti e della conoscenza sempre emendabile e non scindibile come vorrebbe la tradizionale metafisica in res cogitans e res exstensa, bensì modi distinti d’espressione dell’unica soggettività. Fu altrettanto facile spogliare il mio formidabile Nietzsche dei tratti più fastidiosi del suo superomismo aristocratico senza abdicare ad alcuna delle ragioni di quella posizione polemica: la sua lotta sacrosanta e senza quartiere verso ogni forma di egualitarismo, di livellamento quantitativo, di servilismo spirituale con l’immancabile seguito di mode tanto maggioritarie quanto passeggere comuni ad ogni epoca. Non solo di Nietzsche non persi nulla, anzi, così depurato emerse con chiarezza la comunanza tra la potenza delle sue analisi morali e psicologiche – primo e insuperato cantore del singolo – in perfetta sintonia col liberalismo e la sua centralità del soggetto agente. Sulla stessa falsariga ho potuto “riscoprire” Hume, a lungo non capito e sottovalutato, vero genio precursore tanto del liberalismo quanto della filosofia a-sistemica e antimetafisica; non meno importanti infine sono stati l’incontro con Ortega y Gasset e Isaiah Berlin. Mentre il primo ha messo al riparo la sua filosofia dell’esistenza dai soliti pifferai generalizzatori e sistemici dei più variegati esistenzialismi di cui tanto è stato prolifico il Novecento filosofico, il secondo è stato capace di distinguere e salvare le idee e gli uomini che le hanno coltivate dalle ideologie che inevitabilmente permeano e segnano ogni epoca. Così partito per raccogliere in un blog le mie riflessioni, queste sono diventate col tempo un libro che ho voluto chiamare col più nietzscheano dei titoli che mi è venuto in mente: “Individui liberi, diventiamo chi siamo”. Il mio viaggio si ferma qui, si parva licet, anch’io parafrasando Hume: “Ho di me stesso l’immagine di un uomo il quale, dopo aver cozzato in molti scogli, ed evitato a malapena il naufragio passando in una secca conserva ancora la temerarietà di mettersi per mare con lo stesso battello sconquassato…”, non ho però contrariamente a Hume: “l’ambizione – soprattutto le capacità – di contribuire all’istruzione del genere umano”, posso solo dire guardando a ritroso che la mia barca partita per mare un po’ per caso, seppur ammaccata e fragile, di strada ne ha fatta. Non so se queste pagine così intrise del mio individuale percorso potranno anche essere utili ad altri, di certo ai miei occhi non è venuta meno la pretesa tutta personale di aver messo ordine al viaggio e, come un diario di bordo, di farmelo di tanto in tanto ripercorrere e riassaporare, salvando quanto posso e il più a lungo possibile le infinite gioie che mi ha procurato dal lento e inesorabile naufragio del tempo che passa.