SINOSSI
La scienza si nutre di idee ardite che diventano teorie nella misura in cui resistono alla falsificazione, in relazione a quello che viene chiamato “grado di corroborazione” le teorie risultano più o meno confermate. Il nostro essere fallibili, il riconoscere i propri errori, anziché precluderlo, traccia la via al progresso scientifico. In questo senso la scienza è evolutiva, senza seguire un percorso predefinito, anzi è per definizione “mai finito”. L’induzione baconiana, che attraverso l’osservazione e l’esperimento pretendeva di arrivata a conclusioni probabili o addirittura certe, ha per lungo tempo riportato le scienze naturali nell’ambito del razionalismo metafisico, più vicino alle religioni che al metodo sperimentale. Contrariamente a quanto sosteneva Bacone e tanti razionalisti moderni, le scienze naturali non partono da osservazioni ma procedono da problemi, ed ogni soluzione, ogni nuova teoria, fornisce al contempo: una comprensione più profonda della realtà e nuovi problemi, questa ricerca senza fine però non concede nulla ad alcuna forma di relativismo amorale, l’amore per la verità rimane la molla del nostro cercare. Con le scienze sociali, studiando fenomeni qualitativamente tutti differenti – non riproducibili in laboratorio in termini di relazioni causali quantitative come avviene per le scienze naturali – è necessario abbandonare il marchio di fabbrica delle scienze naturali: il metodo sperimentale. Le scienze sociali mantengono però in comune con le scienze naturali il carattere evolutivo ben inquadrato da Sir K. R. Popper. In particolare, F. A. von Hayek ha elaborato in tal senso il concetto di “ordine spontaneo”, ossia la codifica nel tempo di regole generali e astratte sviluppatesi attraverso la competizione e la selezione dei comportamenti più efficaci da parte dei singoli, volti al perseguimento di fini individuali. Con questo paradigma viene spiegato il nascere di istituzioni collettive che nessuno ha pensate o progettato, quali il mercato, la moneta, il linguaggio, la morale ecc., senza cadere nei circoli viziosi dello scientismo e dello storicismo, e senza nulla cedere a derive metafisiche o teologiche.
CITAZIONI
Karl R. Popper – Logica della scoperta scientifica – (pag. 43 e 308 – 311)
Le teorie sono reti gettate per catturare quello che noi chiamiamo “mondo”: per razionalizzarlo, per spiegarlo, per dominarlo. Ci sforziamo di rendere la trama sempre più sottile… Le teorie non sono verificabili, ma possono essere “corroborate”. Si è spesso fatto il tentativo di descrivere le teorie dicendo che non sono né vere né false, ma sono, invece, più o meno probabili. Più in particolare, si è sviluppato la logica induttiva, come una logica che non solo può assegnare i due valori “vero” e “falso” alle asserzioni, ma può assegnar loro anche gradi di probabilità: si tratta di un tipo di logica che qui verrà chiamata “logica della probabilità”. Stando a coloro che credono nella logica della probabilità, dovrebbe essere l’induzione a determinare il grado di probabilità di un’asserzione. E dovrebbe essere un principio di induzione a rendere sicuro che l’asserzione indotta è “probabilmente valida” o a renderlo probabile a sua volta, perché a sua volta il principio di induzione potrebbe essere soltanto “probabilmente valido”. Ma secondo me l’intero problema della probabilità delle ipotesi è stato mal concepito. Invece di discutere la “probabilità” di un’ipotesi, dovremmo tentare di valutare a quali controlli, a quali prove abbia resistito; cioè, dovremmo tentare di valutare fin dove sia stata in grado di dar prova della sua capacità di sopravvivenza, reggendo ai controlli. In breve, dovremmo tentare di valutare fino a che punto sia stata “corroborata”.
La Scienza non è un sistema di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanza costantemente verso uno stato definito. La nostra scienza non è conoscenza (epistéme): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, è neppure un sostituto della verità, come la probabilità. E tuttavia la scienza a qualcosa di più che un semplice valore di sopravvivenza biologica. Non è solo uno strumento utile. Sebbene non possa mai raggiungere né la verità né la probabilità. Lo sforzo per ottenere la conoscenza, e la ricerca della verità, sono ancora i motivi più forti della scoperta scientifica. Non sappiamo, possiamo solo tirare a indovinare. E i nostri tentativi di indovinare sono guidati dalla fede non-scientifica, metafisica (se pur biologicamente spiegabile) nelle leggi, nella regolarità che possiamo svelare, scoprire. Come Bacone, potremmo descrivere la nostra scienza contemporanea – “il metodo di ragionamento che oggi gli uomini applicano ordinatamente alla natura” – come consistente di “anticipazioni, affrettate e premature” e di “pregiudizi”. Ma queste congetture meravigliosamente immaginative e ardite, o anticipazioni, sono controllate accuratamente e rigorosamente da controlli sistematici. Una volta avanzata, nessuna delle nostre “anticipazioni” viene sostenuta dogmaticamente. Il nostro metodo di ricerca non è quello che consiste nel difenderle, per provare quanta ragione avessimo. Al contrario, tentiamo di rovesciarle. Usando tutte le armi della nostra logica, matematica e tecnica, tentiamo di provare che le nostre anticipazioni erano false, allo scopo di avanzare, in loro luogo, nuove anticipazioni ingiustificate e ingiustificabili, nuovi “pregiudizi affrettati e prematuri”, per usare l’espressione denigratoria con cui li chiama Bacone. E’ possibile interpretare più prosaicamente la strada percorsa dalla scienza. Si potrebbe dire che il progresso può “… aver luogo solo in due modi: raccogliendo nuove esperienze percettive e organizzando meglio quelle a nostra disposizione”. Ma questa descrizione del progresso scientifico pur non essendo falsa, sembra fuori bersaglio. Risente troppo di reminiscenze dell’induzione baconiana: suggerisce troppo da vicino l’industriosa raccolta degli “innumerevoli grappoli ubertosi e maturi”, da cui Bacone si aspettava di vedere fluire il vino della scienza: ricorda troppo il mito baconiano di un metodo scientifico che parte dall’osservazione e dall’esperienza e di qui procede alle teorie. (Tra l’altro questo metodo leggendario inspira ancora oggi alcuni degli scienziati più moderni, che tentano di praticarlo, per via della credenza predominate secondo cui si tratterebbe del metodo della fisica sperimentale). Il progresso della scienza non è dovuto al fatto che, coll’andar del tempo, si accumulano esperienze percettive in numero sempre maggiore. E non è dovuto al fatto che facciamo un uso sempre migliore dei nostri sensi. Pe quanto industriosamente le raccogliamo e le scegliamo, da esperienze sensibili non interpretate non potremo mai distillare la scienza. I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate: sono il solo organo, i soli strumenti di cui disponiamo. E per guadagnare il nostro premio dobbiamo azzardarci a usarli. Quelli tra noi che non espongono volentieri le loro idee al rischio della confutazione non prendono parte al gioco della scienza. Anche il controllo sperimentale delle nostre idee, sobrio e accurato, è a sua volta ispirato da idee; l’esperimento è azione pianificata, ciascun passo del quale e guidato dalla teoria. Non per caso andiamo a inciampare nelle nostre esperienze; e neppure le lasciamo scorre su di noi, come una corrente. Invece, dobbiamo essere attivi: dobbiamo “fare” le nostre esperienze. Siamo sempre noi a formulare le questioni da porre alla natura: siamo noi a tentare sempre di nuovo di porre queste questioni, in modo da ottenere un “sì” o un “no” ben chiari (perché la natura non ci dà una risposta, se non facciamo pressione per ottenerla). E alla fine, siamo ancora noi a dare la risposta: siamo noi che, dopo esami severi, decidiamo la risposta alla domanda che abbiamo posto alla natura, dopo lunghi e severi tentativi di ottenere dalla natura un “no” non equivoco. “Una volta per tutte – scrive Weyk e io sono pienamente d’accordo con lui – desidero proclamare la mia ammirazione illimitata per il lavoro dello sperimentatore, per la sua lotta per strappare fatti interpretabili alla natura riluttante, che sa così bene come opporre alle nostre teorie un No decisivo – o un Sì che nessuno può udire”. Il vecchio ideale scientifico dell’epistéme – della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile – si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo. E’ bensì vero che una asserzione scientifica può essere corroborata, ma ogni corroborazione è relativa ad altre asserzioni che a loro volta hanno natura di tentativi. Possiamo essere “assolutamente certi” solo nelle nostre esperienze soggettive di convinzione, nella nostra fede soggettiva. Con l’idolo della certezza (compreso quello dei gradi di certezza imperfetta, o probabile) crolla una delle linee di difesa dell’oscurantismo, che sbarravano le strade del progresso scientifico. Perché la venerazione che tributiamo a quest’idolo è d’impedimento non solo all’arditezza delle nostre questioni ma anche al rigore dei nostri controlli. La concezione sbagliata della scienza si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta. Perché non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità. Il nostro deve dunque essere un atteggiamento di rassegnazione? Dobbiamo dire che la scienza può adempiere solo al suo compito biologico; che, nel migliore dei casi, può solo provare il proprio valore nelle applicazioni pratiche che possono corroborarla? Non credo. La scienza non persegue mai lo scopo illusorio di rendere le sue risposte definitive, e neppure probabili. Piuttosto il suo progresso tende sempre verso lo scopo infinito, e tuttavia raggiungibile, di scoprire problemi sempre nuovi, più generali e più profondi, e di sottoporre le sue risposte, sempre date in via di tentativo, a controlli sempre rinnovati e sempre più rigorosi.
Karl R. Popper – La società aperta – (pag. 612 – 613)
La scienza è fallibile, perché la scienza è umana. Ma la fallibilità della nostra conoscenza – o la tesi che tutta la conoscenza è meramente congetturale, anche se parte di essa consiste in congetture che sono state controllate con estremo rigore – non dev’essere adottata a sostegno dello scetticismo o del relativismo. Dal fatto che possiamo errare e che non esiste un criterio di verità che possa salvarci dall’errore, non segue che la scelta fra teorie diverse sia arbitraria o non-razionale: cioè che non si possa imparare, e avvicinarsi alla verità: che la nostra conoscenza non possa crescere. Con “fallibilità” intendo qui l’idea, o l’accettazione del fatto che possiamo errare o che la ricerca della certezza (o anche la ricerca di un’alta possibilità) è un errore. Al contrario, l’idea di errore implica quello di verità come standard che possiamo anche non riuscire a conseguire. Essa implica che, per quanto si possa cercare la verità e si possa anche trovare la verità (il che credo avvenga in moltissimi casi), non possiamo essere assolutamente certi di averla trovata. C’è sempre una possibilità di errore, benché nel caso di alcune dimostrazioni logiche e matematiche, questa possibilità debba considerarsi estremamente ridotta. Ma la fallibilità non deve dare assolutamente luogo a conclusioni scettiche o relativistiche. Ciò risulta chiaro se consideriamo tutti gli esempi storici noti di fallibilità umana – compresi tutti gli esempi noti di errori giudiziari – sono esempi di avanzamento del nostro sapere. Ogni scoperta di un errore costituisce un reale avanzamento della nostra conoscenza. Come dice Roger Martin du Gard in Jean Barois “è già qualcosa sapere dove non si trova la verità”. Per esempio, benché sapere che la scoperta dell’acqua pesante abbia dimostrato che eravamo in grave errore, essa non solo ha costituito un progresso della nostra conoscenza, ma si è trovata a sua volta collegata con altri progressi ed ha prodotto molti ulteriori progressi. Noi, dunque, possiamo imparare dai nostri errori. Questa fondamentale intuizione è, in realtà, la base di ogni epistemologia e metodologia; infatti, essa ci insegna come imparare più sistematicamente, come avanzare più rapidamente (non necessariamente negli interessi della tecnologia: per ogni singolo ricercatore della verità è della massima urgenza il problema di come accelerare il proprio avanzamento). Essa ci insegna, molto semplicemente, che dobbiamo andare alla ricerca dei nostri errori o, in altri termini, che dobbiamo cercar di criticare le nostre teorie. La critica è ovviamente il solo mezzo che abbiamo per scoprire i nostri errori e imparare da essi in maniera sistematica.
Karl R. Popper – Congetture e confutazioni – (pag.219 e 311)
La mia tesi è che ciò che chiamiamo “scienza” differisce dai miti, non perché sia qualcosa di sostanzialmente diverso, ma perché va congiunta a una tradizione, diremmo, “di secondo grado” che fa propria la discussione critica dei miti. Precedentemente, esisteva soltanto una tradizione di primo grado, con cui si tramandava una narrazione stabilita. In seguito sussisteva ancora, naturalmente, una narrazione da tramandare, ma con essa si trasmetteva una specie di tacito testo di accompagnamento, con i caratteri peculiari del secondo grado: “ti trasmetto questa narrazione ma dimmi cosa ne pensi. Riflettici, e forse ne fornirai una differente”. Questa nuova tradizione introduceva l’atteggiamento critico e polemico. Si trattava, credo, di un fatto relativamente nuovo, ed è ancor oggi una caratteristica fondamentale della tradizione scientifica. Se ce ne rendiamo conto, acquisiamo con ciò un diverso atteggiamento nei confronti di una quantità di problemi legati al metodo scientifico. Comprendiamo allora che, in un certo senso, la scienza è creazione di miti al pari della religione. Ma obietterete forse: “pero i miti della scienza sono assai diversi da quelli della religione”. E certo è così. Ma perché sono diversi? Perché è questa attitudine critica, che modifica la natura dei miti. Essi si trasformano e cambiano, nel senso che ci offrono una descrizione sempre migliore del mondo, dei molteplici oggetti osservabili. Essi, inoltre, ci spingono ad osservare fenomeni che non avremmo mai indagato senza queste teorie o miti. Nell’ambito delle discussioni critiche che si svolsero in quella regione della Grecia, si sviluppò anche, per la prima volta, qualcosa di simile ad una osservazione sistematica…
…La scienza, dunque, prende avvio da problemi non da osservazioni; queste tuttavia possono dare origine a un problema, soprattutto se sono inattese, vale a dire, se si trovano in contrasto con le nostre aspettative o teorie. Il compito che consapevolmente si pone lo scienziato è sempre la soluzione di un problema mediante la costruzione di una teoria che lo risolva, ad esempio, spiegando osservazioni inattese e non ancora interpretate. Tuttavia, ogni nuova teoria appropriata dà origine a nuovi problemi; a questioni concernenti l’accordo con le teorie precedenti, e l’esecuzione di controlli osservativi nuovi e prima impensati. Ed è soprattutto dai nuovi problemi a cui dà luogo, che si può giudicare la fertilità di una teoria. Possiamo dunque affermare che il più durevole contributo che una teoria può dare all’accrescersi della conoscenza scientifica, è costituito da nuovi problemi a cui dà origine, cosicché siamo ricondotti alla concezione della scienza, e dell’accrescimento della conoscenza, come un procedimento che sempre dai problemi parte e ad essi conclude, essendo questi di profondità sempre crescente, e di sempre maggiore fertilità nel suggerirne di nuovi.
Karl R. Popper – Poscritto alla logica della scoperta scientifica – (pag. 191 – 192)
Ma il problema della demarcazione è anche di considerevole importanza pratica. Mi imbattei in questo problema, e nella sua soluzione, diversi anni prima di essermi interessato al problema dell’induzione, e prima di avere intuito quei legami fra il problema dell’induzione e quello della demarcazione ai quali ho appena fatto cenno. Ciò accadde nel 1919, quando varie teorie psicologiche e politiche, che pretendevano lo status di scienze empiriche, cominciarono ad apparirmi sospette, soprattutto la “psicoanalisi freudiana”, la “psicologia individuale” di Adler, e l'”interpretazione materialistica della storia” di Marx. Mi sembrava che tutte queste teorie venissero sostenute in maniera acritica. Si schieravano in loro difesa moltissimi argomenti, ma critiche e contro argomenti venivano guardati con ostilità, come sintomi di un volontario rifiuto ad ammettere la verità manifesta, ed erano, perciò, affrontati con ostilità piuttosto che con argomenti. Ciò che trovai così sorprendente, e così pericoloso, nei riguardi di queste teorie era l’affermazione che esse erano “verificate”, o “confermate” da un flusso incessante di evidenza osservativa. E, invero, una volta aperti gli occhi, si poteva scorgere ovunque degli esempi che la verificavano. Un marxista non poteva guardare un giornale senza trovare in ogni pagina, dagli articoli di fondo alle asserzioni pubblicitarie, delle testimonianze che verificavano la lotta di classe; e le trovava anche, e soprattutto, in ciò che il giornale non diceva. E uno psicanalista, sia freudiano sia adleriano, avrebbe detto sicuramente che trovava le sue teorie verificate ogni giorno, addirittura ogni ora, dalle sue osservazioni cliniche. Ma queste teorie erano controllabili? Queste analisi erano veramente meglio controllate, diciamo, degli oroscopi frequentemente “verificati” dagli astrologi? Quale evento concepibile le falsificherebbe agli occhi dei suoi seguaci? Non costituiva forse ogni evento concepibile una “verifica”? Era precisamente questo fatto – il fatto che esse fossero sempre adeguate, che fossero sempre “verificate” – a impressionare i loro seguaci. Cominciava a farsi strada nella mia mente l’idea che questa apparente forza fosse in realtà una debolezza, e che tutte queste “verifiche” fossero troppo disponibili per poter contare come argomento. Il metodo della ricerca di verifiche mi sembrava errato – mi sembrava, in realtà, il tipico metodo di una pseudo-scienza. Mi resi conto della necessità di distinguere, con tutta la chiarezza possibile, questo metodo dall’altro il metodo consistente nel controllare più severamente possibile una teoria, cioè, il metodo della critica, il metodo della ricerca di esempi che la falsificano.
Friedrich A. von Hayek – Conoscenza, mercato e pianificazione – (pag. 145 – 146)
Quasi altrettanto importante delle vari forme di comportamentismo, e strettamente connessa con queste, è la tendenza, comune nello studio dei fenomeni sociali, a trascurare i fenomeni puramente qualitativi e a concentrarsi, seguendo l’esempio delle scienze naturali, sugli aspetti quantitativi, su ciò che è misurabile. Abbiamo già visto in precedenza come nelle scienze naturali questa tendenza sia una conseguenza inevitabile del loro specifico compito, che consiste nel sostituire all’immagine del mondo in termini di qualità sensibili un’altra immagine, in cui le unità sono definite esclusivamente in base alle loro relazioni esplicite. Questo metodo ha avuto tanto successo nelle scienze naturali, che ora è considerato il marchio di garanzia di ogni procedura genuinamente scientifica. Eppure la sua ragion d’essere, cioè la necessita di sostituire la classificazione degli eventi fornita dai nostri sensi e dalla nostra mente con un’altra più appropriata, non esiste più quando cerchiamo di capire gli esseri umani e quando questa comprensione è resa possibile dal fatto che abbiamo una mente simile alla loro e che, partendo dalle categorie mentali che abbiamo in comune con loro, siamo in grado di ricostruire gli insiemi sociali che rappresentano il nostro oggetto di studio. La pretesa di estendere meccanicamente alle scienze sociali l’applicazione sistematica delle misurazioni quantitative è il risultato di un pregiudizio del tutto ingiustificato, dato che in questo campo non sussistono le condizioni specifiche che, nell’ambito delle scienze naturali, conferiscono alle misurazioni quantitative l’importanza decisiva che esse hanno. Questa pretesa è responsabile, probabilmente, delle peggiori aberrazioni e assurdità prodotte dallo scientismo nelle scienze sociali: non solo, infatti, induce frequentemente a selezionare per l’analisi gli aspetti più irrilevanti dei fenomeni, perché casualmente misurabili, ma porta anche a compiere “misurazioni” e ad assegnare valori numerici del tutto privi di significato.
Friedrich A. von Hayek – L’abuso della ragione – (pag. 177 e 179)
Quanto più avanza la nostra civiltà tecnica e quanto più ampiamente lo studio delle cose, in quanto distinto da quello degli uomini e delle idee, apre la via verso le posizioni di maggiore importanza e influenza, tanto più profondo si fa il divario tra i due tipi di mentalità: quella dell’uomo la cui suprema ambizione e di trasformare il mondo circostante in un’enorme macchina, che vorrebbe veder muoversi in ogni sua parte, alla semplice pressione di un pulsante, in conformità con i suoi propositi; e quella dell’uomo il cui interesse maggiore è lo sviluppo della mente umana in ogni suo aspetto, dell’uomo che, nello studio della storia e della letteratura, delle arti e del diritto ha imparato a considerare gli individui come parte di un processo nel quale il suo contributo non è guidato ma spontaneo, e in cui egli collabora alla creazione di qualcosa di più grande di tutto ciò che lui stesso o qualsiasi altra mente individuale potrà mai pianificare. E’ questa coscienza di essere parte di un processo sociale, questa coscienza dei modi in cui si realizza l’interdipendenza degli sforzi individuali, che rende un’educazione esclusivamente fondata sulla scienza o sulla tecnologia drammaticamente inadatta a fornire. Non è il caso di meravigliarsi se parecchie delle più attive fra le menti così educate, prima o poi, reagiscono violentemente contro quelle che la particolare educazione ricevuta gli fa apparire come deficienze, e manifestano l’appassionata volontà ad imporre alla società quell’ordine di cui non sono in grado di scoprire l’esistenza con gli strumenti conoscitivi normali. Concludendo, ci pare opportuno ricordare ancora una volta al lettore che le critiche fin qui svolte hanno un unico ed esclusivo bersaglio il cattivo uso della scienza, non lo scienziato nel suo particolare campo di applicazione, ma l’applicazione del suo abito mentale a campi estranei alla sua competenza specifica. Non c’è conflitto alcuno fra la nostra conclusione e quello della scienza correttamente intesa. La lezione più importante alla quale siamo arrivati è identica a quella che uno dei più acuti studiosi del metodo scientifico ha enunciato a conclusione di un panorama dei diversi campi dello scibile: “la grande lezione di umiltà dataci dalla scienza, che non potremo mai essere né onnipotenti né onniscienti, è la medesima lezione che ci danno tutte le religioni: l’uomo non è e non sarà mai l’Iddio davanti al quale egli debba inchinarsi”.
Ludwig von Mises – Socialismi – (pag. 637)
Prima di tutto è necessari capire che nel campo dell’azione umana intenzionale e delle relazioni sociali non può venir fatto nessun esperimento e che nessun esperimento è stato sin qui fatto. Il metodo sperimentale a cui le scienze naturali sono debitrici delle loro conquiste non è applicabile nelle scienze sociali. Le scienze naturali sono nelle condizioni di poter osservare nell’esperimento di laboratorio le conseguenze del cambiamento isolato in un unico elemento solamente, mentre restano immutati gli altri elementi. L’osservazione sperimentale nelle scienze naturali si riferisce alla fine a determinati elementi isolati nell’esperienza sensoriale. Ciò che le scienze naturali chiamano fatti sono le relazioni casuali evidenziate in tali esperimenti. Le loro teorie e ipotesi devono essere in accordo con questi fatti. Ma l’esperienza con la quale hanno a che fare le scienze dell’azione umana è essenzialmente differente. Questa è esperienza storica. E’ un’esperienza di fenomeni complessi, di effetti congiunti prodotti dalla cooperazione di una molteplicità di elementi. Le scienze sociali non sono mai nella situazione di controllare le condizioni del mutamento e di isolarle l’una dall’altra nel modo in cui procede lo sperimentatore nell’imbastire i suoi esperimenti. Esse non godono mai del vantaggio di osservare le conseguenze di un mutamento in un solo elemento, ferme restando le altre condizioni. Esse non devono mai confrontarsi con fatti nel senso in cui le scienze naturali usano questo termine. Ogni fatto e ogni esperienza con cui le scienze sociali hanno a che fare sono aperti a varie interpretazioni.
Karl R. Popper – Dopo la società aperta – (pag. 461 – 462)
Vorrei concludere con una considerazione ottimistica. Almeno io ne sono abbastanza rincuorato. Si pensa generalmente che la selezione naturale e la pressione selettiva siano legate alla violenza, ad una lotta più o meno violenta per la vita. Ma tutto questo cambia con l’emergere della mente umana, della funzione superiore del linguaggio umano, che ci permette di formulare teorie, ipotesi, e specialmente una discussione critica impersonale. Possiamo far sì che le nostre teorie lottino tra loro: possiamo far sì, come ho detto prima, che le nostre teorie muoiano al posto nostro. Dal punto di vista della biologia e della selezione naturale, la funzione principale della mente umana e specialmente del pensiero critico è in realtà, che rendono possibile l’applicazione del metodo sperimentale e l’eliminazione dell’errore senza l’eliminazione di noi stessi. In questo sta il grande valore di sopravvivenza della mente umana e del linguaggio umano. Così, nel produrre l’emergenza della mente, del linguaggio e del pensiero critico, la selezione naturale trascende sé stessa e il suo originario carattere violento. Con l’emergenza della mente e della comprensione umana, la selezione non ha più bisogno di essere violenta: possiamo eliminare le teorie false con una critica non violenta. L’evoluzione culturale non violenta è, dal punto di vista biologico, non solo un sogno utopico; essa è, piuttosto, un possibile risultato dell’emergere della mente attraverso la selezione naturale. E’ sì possibile per noi compiere il salto dal mondo della necessità e della violenza al mondo della libertà e della pace. La coesistenza pacifica è possibile, e realizzarla rimane un nostro compito. Nostro compito è non solo interpretare il mondo, ma cambiarlo.
Friedrich A. von Hayek – Legge, legislazione e libertà – (pag. 49 – 51)
Il concetto centrale, intorno a cui si svolgerà la discussione contenuta in questo libro, è quello di ordine, e soprattutto la distinzione tra due diversi tipi di ordine, che possiamo chiamare provvisoriamente ordini “costruiti” e ordini “spontanei”… Mediante il termine “ordine” noi descriviamo uno stato di cose in cui una molteplicità di elementi di vario genere sono in relazione tale, gli uni rispetto agli altri, che si può imparare, dalla conoscenza di qualche partizione spaziale o temporale dell’intero insieme, a formarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno, aspettative che hanno una buona possibilità di dimostrarsi corrette. E’ chiaro che in questo senso ogni società deve possedere un ordine, e che spesso tale ordine esisterà senza essere stato deliberatamente costruito… Ci sono diversi termini a disposizione per descrivere ciascun tipo di ordine. L’ordine costruito, cui ci siamo già riferiti come a un ordine “esogeno”, o una sistemazione, può ancora essere descritto come una costruzione, un ordine artificiale, o, specialmente quando abbiamo a che fare con un ordine sociale diretto dall’alto, come un’organizzazione. L’ordine che si è formato per evoluzione, d’altro lato, cui ci siamo riferiti come ad un ordine che si autogenera o “endogeno”, può meglio essere descritto in italiano come ordine spontaneo. I Greci del periodo classico erano più fortunati, perché possedevano due parole distinte per i due diversi tipi di ordini, cioè taxis per un ordine costruito, come per esempio l’ordine di uno schieramento di battaglia, e cosmos per un ordine formatosi spontaneamente, e che significa in origine “un ordine giusto all’interno di uno stato o di una comunità”. Ci serviremo a volte dei due termini greci come termini tecnici per descrivere questi due tipi di ordine. Non sarebbe un’esagerazione dire che la teoria sociale comincia con – e ha un proprio oggetto solo a causa della – la scoperta che esistono strutture ordinate le quali sono il prodotto dell’azione di molti uomini, ma che non sono il risultato di una progettazione umana. In alcuni altri campi questo è ora universalmente accettato. Sebbene ci sia stato un tempo in cui gli uomini credevano che ogni linguaggio o ogni codice di costumi fosse stato “inventato” da qualche genio del passato, ora tutti riconoscono che tali strutture sono il risultato di un processo di evoluzione che nessuno ha previsto e progettato.
Karl R. Popper – Dopo la società aperta – (pag. 228 – 229)
La tribù o il clan fornisce ai suoi membri una stabile struttura sociale dove vivere; gli uomini vivono e si sentono a loro agio nelle società primitive allo stesso modo in cui i bambini vivono e si sentono alloro agio in una famiglia. La dissoluzione di una tale “società chiusa” deve avere l’effetto di un terribile shock. Essa deve creare infelicità ed un forte desiderio di recuperare la perduta unita della società chiusa… Con l’espressione “società aperta” non intendiamo un determinato “sistema sociale”, ma, fondamentalmente, una società tollerante; una società in cui si tollerino le peculiarità degli individui e, più in particolare, il pensiero critico e persino la critica dei tabù; ed in cui, quindi, possiamo diventare i creatori del nostro destino, anziché i suoi profeti. Non intendo dire, tuttavia, che essa dovrebbe essere una società di “razionalisti critici” o qualcosa di simile. Al contrario ritengo la tensione dovuta dal vivere in una società aperta una cosa del tutto reale, e tale che deve sempre condurre ad una buona dose di irrazionalismo. Una società tollerante deve tollerare, ovviamente, tale irrazionalismo, purché esso non diventi un tipo d’irrazionalismo aggressivamente intollerante.
Friedrich A. von Hayek – Legge, legislazione e libertà – (pag. 541 – 542)
Ad esempio, non si può dubitare che Pugh abbia ragione quando osserva:
“All’interno delle società umane primitiva il condividere è un modo di vita…il condividere non è limitato al cibo ma si estende a tutti i tipi di risorse. Il risultato pratico è che le risorse scarse sono ripartite all’interno della società approssimativamente in proporzione ai bisogni. Questo comportamento può riflettere alcuni valori innati e tipicamente umani che ci sono evoluti durante la transizione a un’economia di caccia”.
Ciò era probabilmente vero a quello stadio dello sviluppo. Ma queste abitudini dovettero venir cancellate di nuovo per rendere possibile la transizione all’economia di mercato e alla società aperta. I passi di quella transizione furono tutte violazioni di quella “solidarietà” che governava il piccolo gruppo e che ancora oggi è un sentimento diffuso. Tuttavia, questi furono i passi verso quasi tutto quello che oggi si chiama civiltà. Il maggior cambiamento storico, che l’uomo ha soltanto parzialmente assorbito avvenne con la transizione dalla società “faccia a faccia”, a quella che Sir Karl Popper ha appropriatamente chiamato la società astratta: una società in cui l’azione nei confronti degli estranei non sono più guidati da bisogni conosciuti di gente conosciuta, ma soltanto da regole astratte e da segnali impersonali. Ciò rese possibile una specializzazione che andava ben oltre il livello che un qualsiasi singolo uomo poteva controllare. Persino oggi la grande maggioranza della gente, inclusi, temo, molti presunti economisti, non capisce ancora che questa estesa divisione sociale del lavoro, basata su una informazione molto dispersa, è stata interamente resa possibile dall’uso di quei segnali impersonali che emergono dal processo di mercato, e che dice alla gente che cosa fare onde adattare le proprie attività a eventi di cui non ha alcuna conoscenza diretta. Che in un ordine economico fondato su una estesa divisione del lavoro non possa più sussistere il perseguimento di fini comuni, ma che si debba agire soltanto in base a norme astratte di comportamento, e che esista una relazione tra tali norme di condotta e la formazione di un ordine spontaneo, è un’idea che molti rifiutano ancora di accettare. Non ciò che istintivamente è riconosciuto come giusto, né ciò che è razionalmente riconosciuto come utile a fini specifichi conosciuti, bensì le norme tradizionalmente ereditate sono quelle che spesso sono più benefiche per il funzionamento della società. Questa è una verità che l’approccio costruttivista dominante dei nostri tempi rifiuta di accettare. Anche se l’uomo moderno spesso trova che i suoi istinti innati non lo conducono sempre nella giusta direzione, egli trae però vanto dall’affermare che è la ragione a fargli riconoscere che un diverso tipo di comportamento può meglio servire i suoi valori innati. La concezione che l’uomo ha costruito coscientemente una società, un ordine della società al servizio dei suoi desideri innati è tuttavia errata, perché senza l’evoluzione culturale che si trova tra istinto e capacità di disegno razionale, egli non avrebbe posseduto quella ragione che ora gli permette di tentare i suoi progetti. L’uomo non ha adottato nuove regole di condotta perché era intelligente. E’ diventato intelligente sottomettendosi a nuove regole di condotta. Deve ancora essere messa in evidenza l’idea più importante, che molti razionalisti tuttora non accettano e che sono persino inclini a marchiare come superstizione, cioè che l’uomo non solo non ha mai inventato le sue istituzioni più utili, come il linguaggio, la morale, o il diritto, ma che ancora oggi non capisce perché debba mantenerle inalterate se non soddisfano né i suoi istinti, né la sua ragione. Gli strumenti base della civiltà – linguaggio, morale, diritto, moneta – sono tutti il risultato di uno sviluppo spontaneo e non di un progetto intenzionale; il potere organizzato si è impadronito degli ultimi due e li ha totalmente corrotti.
Friedrich A. von Hayek – La presunzione fatale – (pag. 130 – 131)
Sebbene “il benessere non abbia alcun principio” – e perciò non possa generare un ordine spontaneo – la resistenza a quelle regole di giustizia che hanno reso possibile l’ordine esteso e la denuncia di esse come contrarie alla morale derivano dalla credenza che il benessere debba avere un principio e dal rifiuto (e qui è dove l’antropomorfismo rientra nel quadro) di accettare che l’ordine esteso sorga da un processo competitivo in cui ciò che decide è il successo, e non l’approvazione di una grande mente, di un comitato, di un dio, o la conformità con qualche principio di merito individuale. In questo ordine il progresso di qualcuno è pagato dal fallimento di sforzi ugualmente sinceri e meritevoli di altri. Il premio non è per il merito… Una comprensibile avversione a risultati del genere, moralmente ciechi, inseparabili da ogni processo per prova ed errore, porta gli uomini a perseguire una contraddizione in termini: e cioè a voler assumere il controllo dell’evoluzione – della procedura per prova ed errore – e plasmarla secondo i loro astratti desideri. Ma le morali inventate che risultano da questa reazione danno luogo a pretese inconciliabili, che nessun sistema può soddisfare e che rimangono sorgente di incessanti conflitti. Il tentativo infruttuosi di rendere giusta una situazione il cui risultato, per sua natura, non può essere determinato da ciò che uno fa o può conoscere, danneggia soltanto il funzionamento del processo stesso. Simili richieste di giustizia sono semplicemente non appropriate a un processo evolutivo naturalistico – non appropriate non solo a ciò che è accaduto nel passato, ma anche a ciò che sta succedendo nel presente. La civiltà non è soltanto il prodotto dell’evoluzione: è un processo: stabilendo un ambito di libertà individuali e di regole generali, essa permette a sé stessa di continuare a evolvere. Questa evoluzione non può essere guidata, e spesso non produrrà ciò che gli uomini desiderano. Gli uomini possono trovare che alcuni desideri precedentemente insoddisfatti vengano adesso appagati, ma soltanto al prezzo di deluderne molti altri. Sebbene attraverso la condotta morale un individuo possa aumentare le sue possibilità, l’evoluzione risultante non gratificherà tutti i suoi desideri morali. L’evoluzione non può essere giusta.