SINOSSI
Il tratto caratteristico del sistema capitalistico, rispetto alle vecchie corporazioni medievali e il loro artigianato per ricchi, è la produzione di massa. Quel tipo di produzione nasce sotto la spinta di popolazioni disperate, ben lontane dal condurre una felice vita agreste, come una certa agiografia aristocratica propaganda; lo sviluppo demografico senza precedenti è la prova del successo del sistema capitalistico. Il capitalismo si fa guidare dal profitto, servire la domanda più urgenti dei consumatori al minor costo è la chiave del successo. Prendersela con gli “speculatori” quando fanno alti profitti e starsene al riparo del proprio reddito fisso quando invece accumulano perdite, non solo è immorale ma è antieconomico. In questo modo si punisce e si scoraggia chi è più utile alla società e non si corregge con velocità e vigore chi fa danni. Speculare, nel senso di cercare di indovinare come in futuro si possa migliorare la propria condizione, è insito in ogni azione umana. Per molti però questo significa uniformarsi alla massa; solo pochi imprenditori sanno indovinare i futuri bisogni da soddisfare e il modo più efficiente per farlo, indicando con il loro esempio la nuova via magari contro l’opinione dei più. Scoraggiarli con alte tasse o con impedimenti burocratici, significa danneggiare maggiormente proprio quei deboli, verso cui una certa politica demagogica di “destra” e di “sinistra”, a parole, vorrebbe ergersi a paladina.
CITAZIONI
Ludwig von Mises – Politica economica – (pag. 8 – 10)
A quei tempi, l’Inghilterra contava una popolazione di sei sette milioni di individui; di questi, un milione forse due erano semplicemente poveri reietti ai cui bisogni il sistema non provvedeva in alcun modo. Cosa fare di questi poveri fu uno dei problemi più gravi dell’Inghilterra del diciottesimo secolo. Un altro grande problema era quello della mancanza di materie prime. I Britannici si trovarono a dover rispondere alla domanda cruciale: cosa faremo nel futuro, quando le nostre foreste non ci potranno dare più legna necessaria per l’industria e per il riscaldamento delle nostre case? Per le classi al potere si trattava di una situazione disperata. Gli uomini al governo non sapevano cosa fare, e la nobiltà al potere non aveva assolutamente idea di come migliorare le condizioni in cui si trovava il paese. Da questa grave situazione sociale ebbe origine il capitalismo moderno. Alcuni di questi reietti, di questi poveri, cercarono di organizzarsi con altri per allestire piccole botteghe per la produzione di qualche bene. Si trattò di una innovazione. Tali innovatori non produssero articoli costosi adatti alle classi sociali più abbienti; produssero beni più economici che potessero soddisfare i bisogni di tutti. Con questa modalità nacque il capitalismo così come funziona oggi. Fu l’inizio della produzione di massa, il principio fondamentale dell’industria capitalistica. Mentre le vecchie industrie manifatturiere che servivano i ricchi abitanti delle città erano esistite esclusivamente per soddisfare i bisogni delle classi alte, le nuove industrie capitalistiche iniziarono a realizzare prodotti che potevano essere acquistati da tutta la popolazione. Si trattò di una produzione di massa finalizzata a soddisfare i bisogni delle masse. E’ questo il principio fondamentale del capitalismo, che è operativo oggi in tutti quei paesi in cui vi è un sistema altamente sviluppato di produzione di massa; la Grande industria, bersaglio degli attacchi fanatici da parte dei cosiddetti uomini di sinistra, produce quasi esclusivamente per soddisfare il bisogno delle masse. Le imprese che producono beni di lusso riservati alle persone abbienti non potranno mai raggiungere le dimensioni delle grandi industrie. E oggi, sono proprio coloro che lavorano nelle grandi imprese, i consumatori principali dei beni prodotti da quelle fabbriche. E’ questa la differenza fondamentale tra i principi capitalistici della produzione e i principi feudali tipici delle epoche precedenti. Quando la gente presume o asserisce che vi è una differenza tra produttore e consumatore dei beni fabbricati nelle grandi industrie, essa commette un grave errore. Nei grandi negozi americani si sente spesso ripetere lo slogan “il cliente ha sempre ragione” E questo cliente è la stessa persona che produce nelle fabbriche i beni che vengono venduti nel negozio.
Luigi Einaudi – In lode al profitto – (pag. 149-152)
L’idea nasce da un sentimento; quello dell’odio verso le eccedenze. L’odio è proprio dell’uomo che non ama il rischio, che si contenta di redditi determinati e sicuri, e crede che guadagnare di più del normale sia, per definizione, il male, sia la rapina, sia l’arricchimento indebito. Può darsi che la rapina ci sia quando l’eccedenza è frutto di monopolio, di privilegio di sussidio o favori o vincoli legislativi. In quei casi importa impedire la nascita del reddito medesimo, non delle sole eccedenze. Ma se il reddito è dovuto alla iniziativa, alla capacità, all’intraprendenza, la tassazione dell’eccedenza è veramente cosa barocca e stupida. Essa contraddice la legge fondamentale della condotta umana: quella del minimo mezzo. La legge del minimo mezzo comanda agli uomini di ottenere, da un dato mezzo, il massimo risultato possibile, e non il minimo non il mediocre e non il minore del massimo. Si scelgono sementi le quali fruttano, a parità di superficie occupata, di fatica durata, di concimi adoperati, una messa abbondante e non una scarsa. Si adopera lo sfruttamento che diminuisce la fatica, non quello che la cresce; si adotta la macchina che ottiene l’istesso prodotto con 5 invece che con 10 operai. Chi si comporta diversamente deve essere eliminato, perché reca danno a sé e alla collettività. Dobbiamo forse, in omaggio al demagogo tassatore, dire: se tu imprenditore ti limiti a organizzare i fattori della produzione così da ottenere, con l’investimento di un miliardo di lire, appena 60 milioni di reddito netto, tu sarai, come imprenditore, salvo dal tributo speciale che io, farneticando, ho inventato. Ma se tu sei capace di ottenere dallo stesso miliardo un frutto di 80 milioni, pagherai sull’eccedenza di 20 milioni oltre i 60, un’imposta di 2 milioni, se otterrai 90 milioni pagherai il 10 per cento sui primi 20 milioni di eccedenza e il 20 per cento sugli ulteriori 10 milioni; e così via via crescendo, quanto più utilizzerai bene i tuoi impianti, i tuoi lavoratori, la tua organizzazione commerciale, tanto più gravemente sarai tassato. Non si viola, con metodi dettati dall’odio sciocco contro il successo, la legge cosmica universale del minimo mezzo, si offende i criteri umani del buon senso; si premiano gli inetti e si multano i capaci, i valorosi, gli intraprendenti. L’odio contro il variabile, contro l’eccedenza, contro quello che si dilunga dal normale assume aspetti, che descriverli tutti sarebbe discorso troppo lungo. Importa guardare al di là dei suoi connotati sentimentali demagogici, alla sostanza del contrasto tra i due tipi di reddito: dei redditi certi e fissi (da obbligazioni, da titoli di debito pubblico da crediti ipotecari, ect.); e dei redditi incerti e variabili (da azioni, interessenze, quote mezzadrili, profitti industriali e commerciali, rendite di terre condotte in economia). Il reddito fisso è un onere per l’impresa debitrice pubblica o privata. Se un’impresa ha un debito obbligazionario di 100 milioni al 6 per cento, ogni anno deve impostare in bilancio 6 milioni di interesse e sarà gran mercé se riuscirà a contenere nel 3 per cento gli oneri addizionali per quote di ammortamento delle obbligazioni e delle spese iniziali di emissione delle provvigioni agli assuntori per rimborso delle imposte formalmente gravanti sugli obbligazionisti. Il saldo netto attivo del conto esercizio deve almeno giungere a 9 milioni, prima che si possa dire di avere ottenuto un guadagno netto d’impresa. Vada bene o vada male l’annata, si venda o non si venda con margine, bisogna far saltare fuori i 9 milioni; gli obbligazionisti devono essere pagati, il fisco non aspetta, le spese ed il capitale a debito devono essere ammortizzati alle scadenze convenute. Il profitto o dividendo o quota di partecipazione o quota residua del prodotto della terra condotto in economia non è invece un evento necessario. Se si guadagna, se i prezzi sono buoni, se essi lasciano un margine, se le imposto non divorano troppa parte del prodotto lordo, se tutti questi se ed altri ancora sono positivi, l’azionista, l’industriale, il commerciante, il proprietario coltivatore diretto ha reddito. Il reddito è un residuo eventuale. Il dividendo o profitto può acquistare talvolta l’apparenza di reddito fisso, se gli amministratori negli anni sfavorevoli, nel quale il saldo attivo del conto di esercizio consentirebbe di distribuire solo il 5 o il 3 invece del solito 10 per cento o magari ordinerebbe di non distribuire nulla, preferiscono mantenere il dividendo al 10 per cento, prelevando la differenza dalle riserve accumulate in passato. Essi così possono decidere per ottime ragioni, come il desiderio di non rendere troppo notoria la vicenda meno favorevole dell’annata, il legittimo interesse di serbare intatto il credito della società o la giusta preoccupazione di non scemare il reddito di azionisti, abituati a fare calcolo su quel dividendo quasi consuetudinario. Gli amministratori, così operando, compiono azione corretta, poiché, se in passato prudentemente non hanno distribuito, a titolo di dividendo, tutto il saldo conseguito negli anni buoni, appunto allo scopo di disporre, negli anni cattivi, per uguagliare nel tempo i dividendi distribuiti agli azionisti e mantenere intatta la reputazione dell’impresa, essi operano saggiamente e non violano nessuna norma morale o giuridica. Che se, invece, essi distribuiscono dividendi che non furono conseguiti né oggi né ieri, essi conducono alla rovina la società e meritano di essere colpiti con le sanzioni che i codici prevedono in questi casi di mala condotta. Tutte e due le specie di reddito, sia quello fisso come quello variabile, sono legittime. Chi ama la certezza, chi vuole dormire sono tranquilli, chi ama riscuotere ad ogni anno ad ogni sei mesi la sua brava somma fissa, acquista obbligazioni, infatti il fondo, incarica il debitore a versare a sue spese l’imposta di ricchezza mobile allo Stato ed, alle convenute scadenze, incassa la cedola degli interessi maturati, le rate dei fitti di case e di terreni e non si preoccupa del modo come sono andate le cose dell’impresa, delle sue sorti, buone o cattive, egli si è contrattualmente disinteressato. Chi invece non teme il rischio e sa che chi non risica non rosica, chi ha l’ambizione di fare qualcosa, chi si sente di condurre un’impresa prospera, chi ama il successo, a costo di qualche ansia e di notti rese bianche dal pensiero di una cambiale in scadenza che non si sa se la banca vorrà rinnovare, con o senza decurtazione, costui si rassegna al rischio di annate, nelle quali il conto profitti e perdite non lascia margine a distribuzioni di dividendo agli azionisti e di quote di reddito ai comproprietari o consci, perché spera che, se il successo arride, se le annate delle vacche magre lasceranno il posto a quelle delle vacche grasse, il suo beneficio non si limiterà al 4 al 6 od al 9 per cento del capitale investito, ma forse toccherà mete più alte, del 20 o del 50 per cento. In quel giorno gli uomini della certezza, della tranquillità, dei tagli delle cedole fisse saltano fuori e, aiutati dal coro degli sfaccendati, gridano all’usura alla speculazione, al guadagno immeritato e spropositato. A noi un misero 6 percento e agli sfruttatori del nostro capitale, a coloro che senza il nostro risparmio sarebbero tuttora piccoli artigiani incerti se sul desco familiare la moglie appronterà minestra e pane, il 20, il 50 e più per cento di utili! Ambe le categorie sono necessarie. Il risparmiatore contento dell’interesse fisso è utile all’imprenditore che può così allargare il giro dei suoi affari, ed a sua volta l’imprenditore dà al risparmiatore la garanzia di pagargli l’interesse convenuto e di rimborsargli il capitale mutuato, grazie al capitale suo proprio che egli ha investito in aggiunta, correndo il rischio di perdite e di mancati guadagni.
Luigi Einaudi – Il buongoverno – (pag. 303)
Fa d’uopo riportare la parola “speculazione” al suo significato genuino, che è quello di chi guarda all’avvenire, di chi tenta a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano e indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli “speculatori” veri sono rarissimi. Se la meteorologia riesce a mala pena a fare previsioni sul tempo futuro, ancor più difficile all’uomo far previsioni sul futuro economico. Gli uomini dotati della facoltà divina della previsione sono rarissimi. La più parte di noi uomini comuni agisce come le pecore, che dove l’una va, le altre vanno. Ma quando tutti corrono in un verso, possiamo essere sicuri che quel verso conduce all’abisso. I rarissimi veri “speculatori” si sono voltati ormai da un’altra parte in cerca di quegli indizi che appena appena si intravedono all’orizzonte e che indicano le vie della nuova produzione e dei nuovi gusti e quindi dei guadagni vantaggiosi agli speculatori e alla collettività. Quel che tutti fanno – e tra tutti si noverano massimamente i politici, intenti a seguire le folle e nemicissimi perciò degli speculatori – è certamente uno sbaglio. Vi è sempre un limite alla convenienza, ma poiché quel limite è sempre sorpassato dagli uomini, animali per essenza imitatori, è sommamente vantaggioso che i pochi “speculatori” suonino il campanello d’allarme per gli sbagli che si stanno facendo e additino le vie dell’avvenire. A costoro, non occorre erigere statue, ché essi agiscono nel proprio interesse e corrono spontaneamente il rischio dei propri errori. Non intralciamone tuttavia l’opera feconda di guida alle moltitudini paghe di ripetere le idee lette ogni mattino; e, sovratutto, non copriamoci di ridicolo con lo storcere il significato corretto delle parole, innalzando idoli vani e abbassando quello che nell’umanità è rarissimo.
Ludwig von Mises – Il fallimento dello stato interventista – (pag. 209)
Ciò che è vero per gli imprenditori vale anche per i capitalisti. Solo il capitalista che sa usare al meglio li suo capitale (dal punto di vista del consumatore), cioè investendolo in modo tale che i mezzi di produzione impiegati al servizio dei consumatori siano più efficienti, può mantenere e aumentare la propria proprietà. Se non vuole subire perdite, deve mettere i propri mezzi a disposizione del successo dell’impresa. Nell’economia di mercato il capitalista, proprio come gli imprenditori e i lavoratori, è al servizio del consumatore. In questo contesto è superfluo sottolineare esplicitamente che i consumatori non sono semplicemente consumatori, ma che la totalità dei consumatori coincide con la totalità dei lavoratori, degli imprenditori dei capitalisti. In un mondo in cui le condizioni economiche fossero costanti, l’esatto ammontare che gli imprenditori dovrebbero spendere per i mezzi di produzione come salari, interessi e rendite, sarebbero più tardi recuperati come prezzi dei loro prodotti. I costi di produzione sarebbero così uguali ai prezzi dei prodotti, e gli imprenditori non realizzerebbero profitti e non subirebbero perdite. Ma il mondo è in costante mutamento, e tutte le attività produttive hanno quindi un carattere essenzialmente incerto e speculativo. I beni sono prodotti per incontrare una domanda futura, in merito alla quale abbiamo poche conoscenze certe nel presente. E’ da questa incertezza che nascono profitti e perdite; i profitti e le perdite degli imprenditori dipendono dal successo delle previsioni sullo stato della domanda futura. Realizzerà un profitto solo quell’imprenditore che anticipa, meglio dei suoi concorrenti, le future preferenze dei consumatori.
Ludwig von Mises – Burocrazia – (pag. 46 e 47)
E’ perciò assurdo contrapporre la produzione in funzione del profitto alla produzione finalizzata all’uso. La ricerca del profitto costringe l’imprenditore a rifornire i consumatori di quei beni che questi cercano con la massima urgenza. Se l’imprenditore non fosse costretto ad assumere la ricerca del profitto come propria guida, egli potrebbe produrre una maggior quantità di A, a dispetto del fatto che i consumatori preferiscano qualcos’altro. La ricerca del profitto è precisamente il fattore che costringe l’uomo d’affari a fornire ai consumatori, con la massima efficienza, quei prodotti di cui i consumatori stessi desiderano far uso. Il sistema di produzione capitalistico è in tal modo una democrazia economica nella quale ogni penny da diritto di voto, i consumatori sono il popolo sovrano. I capitalisti, gli industriali e gli imprenditori agricoli sono i mandatari del popolo. Se essi non obbediscono, se non riescono a produrre al più basso costo possibile, ciò che i consumatori richiedono, perdono il loro posto. Il loro compito sta nel servire il consumatore. Profitti e perdite sono gli strumenti per mezzo dei quali i consumatori tengono sotto controllo tutte le attività economiche.
Gli intellettualoidi arricciano il naso davanti alla filosofia di Horatio Alger. E tuttavia Alger, meglio di qualsiasi altro, è riuscito a porre in evidenza l’aspetto più caratteristico della società capitalistica. Il capitalismo è un sistema in cui chiunque ha la possibilità di arricchirsi; è un sistema che offre possibilità illimitate a tutti. Ovviamente, non tutti sono favoriti dalla buona fortuna. Assai pochi diventano miliardari. Ma ognuno sa che uno sforzo strenuo, e nient’altro che uno sforzo strenuo, è remunerativo. Costui è ottimista, consapevole della propria forza. E’ fiducioso in sé stesso e pieno di speranza. E mentre avanza negli anni e vede che molti dei suoi piani non si sono realizzati, non per questo a motivo di disperarsi. I suoi figli inizieranno, a loro volta, la loro corsa ed egli non vede ragione alcuna perché essi non dovrebbero riuscire là dove egli ha fallito. La vita è degna di essere vissuta perché piena di promesse. Tutto questo era particolarmente vero dell’America. Nella vecchia Europa sopravvivevano ancora molti ostacoli ereditati dall’ancien régime.
Ludwig von Mises – Politica economica – (pag. 11 – 13)
Nonostante i benefici che ha portato con sé, il capitalismo è stato oggetto di aspre critiche. E’ necessario capire l’origine di tale avversione. E’ un dato di fatto che l’odio per il capitalismo ebbe origine non nelle masse, non nei lavoratori stessi, ma nell’aristocrazia terriera – la piccola e grande nobiltà dell’Inghilterra e del continente europeo. Attribuirono al capitalismo la colpa di un fenomeno dagli effetti per loro piuttosto spiacevoli: agli inizi del diciannovesimo secolo, gli alti salari che le industrie corrispondevano ai lavoratori costrinsero la nobiltà terriera a corrispondere salari altrettanto alti ai lavoratori agricoli. L’aristocrazia attaccò l’industria criticando lo standard di vita delle masse dei lavoratori. Naturalmente, dal nostro punto di vita, la qualità della vita degli operai era estremamente bassa; le condizioni in cui vivevano durante la prima fase del capitalismo erano assolutamente terribili, ma non perché le industrie capitalistiche appena nate avessero danneggiato i lavoratori. Gli individui che furono assunti per lavorare nelle fabbriche sopravvivevano già ad un livello subumano. La famosa vecchia storia, ripetuta centinaia di volte, secondo cui nelle fabbriche lavoravano donne e bambini, i quali erano vissuti fino a quel momento in condizioni accettabili, è una delle più grandi bugie della storia. Le madri di famiglia che lavoravano nelle fabbriche non avevano nulla con cui poter cucinare; non lasciarono le loro case e le loro cucine per andare a lavorare nelle fabbriche; al contrario, andarono nelle fabbriche perché non avevano cucine, e se avevano una cucina non avevano cibo da potervi preparare. E i bambini non erano stati portati via da confortevoli asili. Stavano morendo di fame. Tutte le argomentazione a proposito del cosiddetto orrore indicibile della prima fase del capitalismo possono essere confutate con un solo dato statistico: proprio in quegli anni in cui si sviluppò il capitalismo, proprio durante l’epoca denominata Rivoluzione industriale in Inghilterra, dal 1760 al 1830, la popolazione dell’Inghilterra raddoppiò, il che significa che centinaia o migliaia di bambini – che in altri tempi sarebbero sicuramente morti – riuscirono a sopravvivere e a diventare uomini e donne. Non vi sono dubbi che le condizioni delle epoche precedenti fossero molto insoddisfacenti. Furono le imprese capitalistiche a migliorarle. Furono proprio le prime industrie a provvedere ai bisogni dei lavoratori, in modo diretto e indiretto, con l’esportazione dei beni di produzione e l’importazione di generi alimentari e di materie prime da altri paesi. Ripetutamente, i primi storici del capitalismo hanno – e non si può certo usare un termine meno forte – falsificato la storia.
Luigi Einaudi – In lode al profitto – (pag. 157)
Il profitto è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità. Il profitto può essere abolito; è possibile abolire le crisi e le variazioni economiche; ma dobbiamo incaricare qualcuno di compiere il lavoro che oggi è in gran parte ufficio dei professionisti degli artisti liberi, degli artigiani indipendenti, degli imprenditori liberi. Al ceto mobile e vario degli imprenditori noi possiamo sostituire l’esercito dei funzionari dirigenti, dei regolatori del piano, degli ordinatori di quel che si deve produrre e consumare. Facciamolo; ma ricordiamoci che, così deliberando, d’un tratto per atto di volontà rivoluzionaria, o per lento pigro consenso dato a predicazioni che si dicono avanzate e coraggiose e sono brutta e frusta eredità del passato, noi avremo creato un regime tirannico; e ricordiamo anche che in nessuna epoca storica è esistita una tirannia tanto piena e tanto perfetta come quella alla quale, volontariamente o inavvertitamente, ci stiamo avviando. Nemmeno nella Roma post-diocleziana, l’irrigidimento della società economica giunse al punto, al quale, sorpassando con leggerezza indicibile il punto critico, la avviano i dirigenti, i municipalizzatori, i nazionalizzatori, gli statizzatori, i socializzatori d’oggi. Eppure, l’irrigidimento imperfetto della società romana della decadenza fu una delle cause della rovina dello Stato. I barbari germanici non durarono fatica ad abbattere il colosso. Sembrava ancora vivo; ma le sue membra, regolate e legate e vincolate allo Stato onnipotente ed onnipresente, più non erano in grado di combattere.