THE RIGHT TO THE PURSUIT OF HAPPINESS

Qualche tempo fa in una nota trasmissione televisiva Walter Veltroni invitato a presentare il suo nuovo film, una classica storia di riscatto, memore del suo passato di leader politico si è lasciato andare alla seguente dichiarazione: la sinistra non può limitarsi ad amministrare deve farsi carico della felicità delle persone, del loro diritto alla felicità come recita la costituzione americana. Certo, se esistesse il diritto alla felicità lo stato non potrebbe che farsene carico, per fortuna la costituzione americana parla del diritto alla “ricerca” della felicità, che per questo rimane una faccenda terribilmente privata. Purtroppo non si è trattata di una semplice citazione sbagliata, ma della vecchia e pur sempre verde idea dello stato “pastore”, così diffusa e popolare nel nostro paese, tanto da non sorprendere neanche se a farla propria sia uno dei pochi leader della sinistra a cui più di tutti va riconosciuto la capacità di averla modernizzata. Vale pertanto la pena di provare a capire i pregiudizi su cui si è radicata nel tempo una convinzione tanto sentita, per chi scrive la mancata correzione di quei pregiudizi rischia di trasformare la cosiddetta seconda repubblica nella dissoluzione della repubblica. Eppure la totale sfiducia verso i servizi affidati al nostro stato extra large è ormai così comune dalle alpi all’Etna, che a fare notizia, un po’ come l’uomo che morde il cane, è lo stato che funziona non il contrario. Allo stesso tempo e ciononostante, non si spiega perché mentre nei paesi anglosassoni si chiamano public company e public school le grandi multinazionali e le scuole private, da noi quell’aggettivo “public” appiccicato a iniziative non statali suona all’orecchio come un sacrilegio. Sulla stessa falsariga proposte quali: l’opting out nella sanità, la crescita della previdenza privata a discapito di quella statale, vengono vissute come una “lesione dei diritti fondamentali”. Proviamo a capire qual è la radice culturale di questo cortocircuito. Partiamo da una considerazione finanche banale, ma che troppo spesso viene manipolata a dovere tanto a destra quanto a sinistra. La possibilità di accedere ad un numero straordinario di beni materiali in modo così cospicuo e diffuso è stata resa possibile solo con l’avvento dell’economia di mercato, come altrettanto recente è la stessa idea di diritti individuali universali, e in fine, non meno attuale è la visione democratica del nostro vivere civile, dove ognuno è chiamato a concorre alle decisioni su quanto concordiamo di mettere in comune. La cultura liberale ha ormai anche definitivamente dimostrato come la direzione e lo sviluppo di quelle tre dimensioni: economico, giuridico e politico, che caratterizzano la moderna cultura occidentale, siano tra loro non solo intrinsecamente legate ma anche animate da quel desiderio di libertà, pungolo profondo e costante di ogni azione umana. Certo la ricchezza, il diritto, la partecipazione alla politica, non nascono con la modernità, a renderli tali è l’accesso potenziale concesso a tutti di quei benefici, la cosiddetta universalità dei diritti a prescindere da vincoli di nascita, di censo, di razza, di classe. Non possiamo certamente negare che anche il nostro paese abbia avuto un suo onorevole percorso nello sviluppare quei tre caratteri che abbiamo posto alla base della moderna civiltà occidentale, e allora perché quel cortocircuito? Perché mercato, diritto e democrazia, sono da noi sentiti più come sinonimi di forza, scaltrezza e furbizia, anziché di merito, eguaglianza e giustizia? La mia opinione è che il presupposto tanto del mercato, quanto del diritto inteso come governo della legge, che della democrazia, sono il frutto di una rivoluzione morale, che per ragioni storiche e ritardi culturali, rimane nel nostro paese tuttora in gran parte disattesa. Proviamo a capire meglio cosa noi moderni intendiamo per morale. Come per la libertà, parafrasando Benjamin Constant, esiste una morale degli “antichi”, dove l’azione umana era più o meno morale nella misura in cui si conformava al costume, alla legge, nel senso di “tavola delle leggi”, eteronoma al soggetto agente. La responsabilità individuale si misurava in gradi di avvicinamento del proprio agire a quel modello, a tal fine incentivata da un sistema di premi e di punizioni allestito dalla comunità, tanto da fare assumere alla morale una dimensione preminentemente pubblica. Viceversa, nella società moderna quella dimensione della morale si affievolisce, viene meno gran parte della sua autorità, innanzitutto perché affiancata da tante morali eteronome provenienti da diverse culture, perde la sua unicità; poi perché quei concetti di razza, nazione e classe, che definivano e permeavano i giudizi morali, contaminandosi, riducono gran parte del loro vigore. Ed proprio questo melting pot in apparenza, ma solo in apparenza caotico, a costituire il terreno privilegiato della morale “moderna”, individuale. In termini sociologici ognuno spinto dal proprio interesse, ma sottoposto al costante confronto con l’altro, elabora continuamente proprie autonome scale di valori, le quali crescono, si diversificano e si personalizzano, nella misura in cui espandono proprio quei caratteri che abbiamo posto a base per eccellenza della modernità: mercato, diritto e democrazia. Mentre in termini psicologici a cambiare è il nostro rapporto col tempo, sempre meno legato al susseguirsi di stagioni e ruoli predefiniti. Viceversa, l’uomo moderno sente il tempo come una dinamica relazione tra la coscienza di sé e il mondo, dove la cosiddetta soggettività è oggetto del costante lavoro di modifica e perfezionamento da parte dell’azione umana, volta a rendere la propria condizione non più un dato ereditato, bensì il risultato di quell’azione. Quella che il linguaggio fenomenologico chiama autoconoscenza, ossia la coscienza della relazione tra il proprio sé e il mondo, non è un tratto peculiare della modernità, ciò che cambia è la direzione del processo di autocoscienza, noi non comprenderemo mai il legame che unisce un antico ateniese alla sua Polis, così come a quest’ultimo risulterebbe inspiegabile il nostro agire prima come individui e poi come cittadini delle nostre democrazie. Lo stesso processo per un verso di individualizzazione e per l’altro di astrazione avviene tanto per il mercato quanto per il diritto. Agiamo sì come individui, ma attraverso un reticolo sempre più astratto di convenzioni e linguaggi che ci legano l’uno all’altro. Ogni azione prima di essere rivolta verso l’esterno contiene un progetto, magari partito con una rinuncia verso un bene immediato, che si sviluppa mediante: intraprendenza, perseveranza, valutazione dei risultati. A cambiare è anche lo stesso concetto di libertà, sentita tale nella misura in cui il soggetto l’avverte come responsabilità verso quel progetto liberamente scelto, ribaltando così il vecchio paradigma della morale eteronoma, che sentiva la libertà come libertà da ogni vincolo con l’oggetto “mondo”. Fin qui siamo però ancora nell’ambito dei presupposti per una morale autonoma, questa diventa effettiva quando l’uomo scopre mediante l’esperienza, che l’affrancamento (sempre parziale) dalla rigida necessità che regola il mondo naturale, passa solo attraverso lo sviluppo del suddetto complesso di relazioni col prossimo. Non si tratta di “donarsi” al prossimo come vorrebbe la morale cattolica, ma di trovare un compromesso col prossimo; grazie a cui il mio bene da ethos individuale diventa bene comune, pertanto morale. Questa costante sensazione di trade off, scambio ma anche compromesso, quando competiamo sul mercato (si vince e si perde), quando ci appelliamo alla legge (fonte di diritti ma anche di doveri), quando esercitiamo il voto democratico (si può essere in maggioranza ma anche minoranza), è il prezzo non comprimibile per la nostra autonomia morale. In quest’ambito nasce quel sentimento fugace ed estremamente individuale con cui eravamo partiti chiamato felicità, e diventa tale proprio perché non esprime un risultato oggettivamente misurabile della propria azione nel mondo, ma il grado sempre parziale e soggettivo di adeguatezza dei mezzi messi in campo, per raggiungere il fine preposto in quanto soggetto agente. Si spiega così perché la felicità raggiunta da un individuo particolarmente dotato nella sua professione, esercitata magari in un ambiente estremante favorevole, è infinitamente più basso se confrontata con la felicità, magari per un risultato inferiore in termini professionali, ottenuta nel medesimo ambito da un self made man. La giustizia non sta nel parificare i punti di partenza, obiettivo che storicamente ha sempre prodotto un livellamento verso il basso, bensì nel rendere possibile ad ogni singolo di esprimere al meglio la propria originale individualità, affinché risulti effettiva, concreta, quella “pursuit of happiness”, questa sì uguale in ogni individuo. E’ proprio questo sentimento di eguaglianza, che rifugge ogni egualitarismo, ad avere animato lo straordinario sforzo della nostra civiltà verso ogni diversità, vera radice della nostra ricchezza materiale e spirituale. Mi piace ricordare come esempio in tal senso, la formidabile edizione delle para-olimpiadi inglesi di qualche anno fa, il cui successo dovrebbe fare arrossire i tanti critici engagé del nostro modello di società. Che cos’è quindi la felicità per l’individuo? E’ la libera scelta di attività volte a perseguire fini di miglioramento, o perlomeno sentiti come tali, della propria condizione; il quantum di felicità raggiunta varia proprio dalla differenza tra le condizioni di partenza e i risultati raggiunti, il sentimento di responsabilità e il mercato, ben più dell’uguaglianza dei punti di partenza e della giustizia sociale, risultano decisivi per lo sviluppo dell’individuo libero e felice. Purtroppo, questi sentimenti di autonomia e responsabilità verso la propria condizione, il proprio destino, difettano al nostro paese. Pensiamo ai grandi avvenimenti che si sono susseguiti nella nostra storia patria, il Rinascimento, il Risorgimento, la Resistenza, pur conseguendo risultati straordinari rimangono espressione di una élite, che non solo si è sentita tale, ma ha assunto anche forma teoretica. Non è un caso se proprio nel nostro paese e in quei periodi vengono teorizzate e pubblicate opera quali: “Il Principe” del Machiavelli, le grandi teoria sull’élite di Mosca e Pareto e elaborato il concetto di “egemonia culturale” da Gramsci; tutte accomunate dallo stesso schema, al popolo serve un buon pastore. E magari in un primo momento quel “buon pastore” lo si era effettivamente trovato, e da lì i successi di quegli avvenimenti storici giustamente sempre ricordati, poi però anche i pastori migliori “tengono famiglia”, e con gli “eredi” inevitabilmente iniziano i guai. Come se ne esce? Nonostante i limiti di quell’esperienza credo che il primo governo Prodi, dove proprio Veltroni fu tra i protagonisti, possa tuttora essere un buon modello. Non certo per le coalizioni allargate, che furono tanto per il primo come per il secondo governo Prodi la loro tomba. Ma per la messa al centro dell’azione politica di un’idea forte su cui, senza promettere prebende, ma chiedendo al contrario un giusto contributo ad ogni cittadino, si persegua un comune obiettivo. Potrà anche apparire paradossale, ma sono convinto, vuoi per demografia, vuoi per senso di responsabilità che ognuno sente verso la propria famiglia, che sia proprio il pagamento di quel debito monstre, grazie a cui abbiamo ipotecato il futuro di un paio di generazioni, a poter diventare scopo condiviso intorno a cui riunire il paese. Pagandolo ovviamente, non certo con la svalutazione come vorrebbero i demagoghi di ogni risma, la quale significherebbe farlo pagare ai creditori, ossia a chi in questi anni ha gestito in modo oculato le proprie attività. Non solo la svalutazione sarebbe ingiusta, ma non risolverebbe i difetti che stanno alla base di quel debito, i quali viceversa, passando attraverso la correzione degli elementi di spesa che lo hanno creato, diventerebbero domani le virtù su cui ricostruire su basi sane uno stato efficiente. Magari sarà un luogo comune abusato, ma non bisogna mai dimenticare che gli errori, i fallimenti, se in un primo momento sono fonti di inevitabili ansie e scoramenti, poi, dopo aver fatto un bel respiro, diventano sempre miniere inesauribili di occasioni. Infine, esiste quindi un sentimento di felicità per così dire collettiva? Io dico di sì, ed è il frutto più maturo e ubertoso di una democrazia ben funzionate. Una democrazia capace di fornire ai cittadini strumenti corretti per scegliere e poi giudicare una classe dirigente, che a sua volta ha diritto ad avere strumenti efficienti atti a raggiungere i fini per i quali è stata eletta. Una democrazia però fondata sul rispetto della minoranza, a cui vada inibita ogni tentazione di trasformare lo stato per fini elettorali, mascherati da sempre di buone intenzioni come ogni via che conduce all’inferno.

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