ORTEGA Y GASSET E IL LIBERALISMO

Ortega come tanti della sua generazione è un critico radicale del positivismo e del razionalismo, ossia della convinzione di poter trovare la verità, il senso dell’esistenza, nelle scienze positive e nella ragione. Ortega però non è uno scienziato né uno storico del pensiero, è un filosofo, e come ogni “animale della sua specie” scruta il mondo attraverso un proprio filtro, nel gergo filosofico si direbbe una weltanschauung, ed è proprio lì che si deve ricercare il suo originale contributo alla tradizione liberale. Già la sua prima importante opera, “Meditazioni del Chisciotte”, contiene l’intuizione destinata a diventare il lietmotiv di tutta la sua produzione filosofica, cerchiamo di riassumere il punto di vista del filosofo: ognuno in qualsiasi momento della propria vita sente il proprio io, distinto e al contempo indissolubilmente legato alla propria circostanza, l’originale dipanarsi di questo rapporto nel divenire di ogni singola esistenza è per Ortega quello che la filosofia tradizionale ha chiamato essere. Non si tratta di cercarlo l’essere come fa il philos-sophos, l’amico della conoscenza appunto, bensì di crearlo; l’esistenza come vedremo non è uno stare, ma proprio per questo suo compiersi nella vita di ognuno, un dramma. Questa di Ortega rappresenta una consapevole e radicale rottura con la tradizione filosofica risalente fino a Parmenide, il primo a riflettere sul demone del divenire – il cambiamento – e l’ansia che questo incute nella vita di ognuno. Proprio per esorcizzare, per dominare la paura del cambiamento, il grande Eleata per primo teorizza la sussistenza di un essere in sé e per sé incorruttibile a cui ritornare – come il navigante cerca la quiete del porto nel mare in tempesta – mediante la conoscenza. Le Idee di Platone e il Pensiero di Pensiero di Aristotele sono state le architetture più riuscite del presupposto parmenideo; pochi però sanno accedervi, “la natura ama nascondersi” sentenzia Eraclito; per l’uomo comune immerso nel mare della doxa ogni epistéme è preclusala verità incontrovertibile è privilegio del solo filosofo. Questa impostazione nota come realismo antico, anche quando andrà in crisi e l’adaequatio rei et intellectus di Tommaso verrà sentita nel mondo in subbuglio del basso Medio Evo come vuoto formalismo, non perde in alcun modo la fiducia nell’esistenza di un essere immutabile teorizzata dal filosofo di Elea. A mutare sarà solamente il luogo dove cercare l’essere, non nelle cose ma nel pensiero stesso. Il razionalismo moderno riassunto nella formula cartesiana Cogito ergo sum compie questo apparente ribaltamento, paradigma mediante cui Hegel con la sua peculiare dialettica farà risalire l’intero reale nel razionale, per usare la nota formula del filosofo di Tubinga. Il razionalismo è intrinsecamente legato alla mentalità scientifica, la distanza linguistica tra la dialettica hegeliane e le scienze positive è solo formale, queste a ben vedere non sono che la rigida applicazione di quel pensiero; la cosiddetta “natura” oggetto di studio delle scienze positive non è qualcosa di altro da noi; dietro l’affastellarsi dei fenomeni apparentemente irrelati essa cela le sue leggi eterne, scritte in quella lingua matematica di cui parlava Galileo, ossia nel prodotto per eccellenza della ragione. Certo, come ai tempi di Platone, non tutti sanno leggere quelle formule, per farlo anche l’amico della conoscenza ha dovuto rinnovarsi: è diventato scienziato. Tuttavia, rispetto al realismo antico, la conoscenza perseguita dal razionalismo moderno attraverso le scienze positive è diventata più democratica, in particolare attraverso la sua applicazione pratica, la tecnica. La scienza difatti non si limita a contemplare la natura non è più l’intelletto ad adeguarsi alle cose, ma saranno le cose attraverso la tecnica – a cui tutti col nostro lavoro ci dedichiamo – a diventare sempre più simili alla ragione e per questo più rassicuranti e dominabili dall’uomo; si potremmo riassumere: adaequatio rerum intellecto.

L’evoluzione della grande tradizione filosofica occidentale è veramente un unicum nella storia umana, ciò nonostante, proprio per quella sua originaria impostazione intellettualistica si dimostrerà incapace di penetrare il dramma nel senso di continua azione, continuo da fare, vera cifra di ogni esistenza. Contrariamente a quanto afferma la vulgata l’uomo è prima homo agens e poi homo sapiens, non viviamo per pensare ma pensiamo per vivere, il dramma è proprio questo incessante sforzo, che ci accompagna fino all’ultimo respiro, di dare alla vita la nostra personale impronta. Quando il pensiero da mezzo diventa fine com’era accaduto nel realismo antico e come di nuovo si ripresenta vestito nei panni del razionalismo moderno mediante l’impetuoso sviluppo scientifico e tecnologico, quella gabbia magari dorata – oggettivando in categorie intellettuali predefinite ogni fase dell’esistere – impedisce al soggetto una propria elaborazione originale del senso della sua vita, così l’uomo va in crisi. La vita diventa un flusso estraneo all’io a cui però non ci si può sottrarre, ed assume quei caratteri di inautenticità e alienazione descritti da Ortega ne: “La ribellione delle masse”. Non è la prima volta che la filosofia – per sfuggire ai circoli viziosi da lei stessa fabbricati – diventa eretica verso la tradizione, pensiamo ai Sofisti, a Spinoza, a Hume e Nietzsche, nessuno però ha saputo come Ortega arrivare alla radice del problema con la consapevolezza sopra menzionata. Non lasciamoci fuorviare dalla terminologia di Ortega, due sono i punti di frattura con la tradizione: il rapporto unico e originale che lega ogni Io alla sua circostanza, ossia il pieno recupero del carattere diveniente e cangiante della vita su ogni consolatoria quiete ontologica o teologica; infine, la natura esistenziale e quindi singolare di quella relazione che rendono sì l’individuo libero, ma responsabile nell’esperire e ricercare i limiti di quella libertà nel continuo confronto quotidiano con la propria circostanza. Così si esprime Ortega con la sua bella prosa: “Il senso della vita non è altro che accettare ciascuno la propria inesorabile circostanza, nell’accettarla, convertirla nella propria vocazione. L’uomo è l’essere condannato a tradurre la necessità in libertà”.  Per chi scrive quel mettere al centro l’individuo libero e responsabile di definire i propri limiti, rende Ortega affine al moderno liberalismo nel suo sforzo di tracciare “la libertà dei moderni”, direbbe Benjamin Constant, nei limiti dello stato democratico e delle leggi del mercato. Seguiamo però Ortega, la sua impostazione filosofica non è solo in sintonia con il liberalismo, ma proprio per il suo essere filosofo tutto tondo, egli saprà come vedremo anche emendarlo da quell’intellettualismo ereditato dalla tradizione.

Nel rapporto tra l’io e la propria circostanza l’io è gettato nell’esistenza, non ci è dato di scegliere – tutt’al più esistendo, unici tra i viventi, possiamo porre fine alla nostra vita – né ci è dato scegliere la propria circostanza; inoltre, se ci abbandonassimo ad essa facendo affidamento sul nostro apparato istintuale come fanno tutti gli altri esseri viventi ci saremmo già estinti da un pezzo. Questa inadeguatezza dell’essere umano alla vita animale è abbondantemente compensata dalla facoltà più originale della nostra specie, la capacità di pensare. Attenzione però, non è il risultato del nostro pensiero che sta a cuore ad Ortega, ma la capacità di ritirarci dal mondo che ci circonda per prendere coscienza della nostra situazione e trovare la soluzione più pertinente alla nostra singola esistenza. Basta osservare un primato dirà Ortega, l’animale più “simile” a noi, per constatarne al contrario l’incolmabile “differenza” che ci separa dal medesimo. La vita è per lui una continua proiezione attraverso i propri istinti fuori nel mondo, gli occhi sono incessantemente in movimento da una cosa all’altra fino a quando la fatica lo costringe al ritiro, solo allora sopraggiunge il torpore del sonno. Per l’uomo invece gli istinti guidano la parte meno significante dell’esistenza, il nostro stare nel mondo è azione cosciente, vale a dire azione prima riflessa e soppesata nella nostra coscienza poi realizzata e sempre volta a un fine. Non si nasce individui lo si diventa, si tratta però di un lungo apprendistato, “non si impara a volare a volo” direbbe Nietzsche. Ognuno di noi nascendo sente da un lato l’irriducibile originalità della propria esistenza, l’io di Ortega, ma al contempo si trova immerso in un contesto storico e sociale determinato proprio dalle azioni di chi lo ha preceduto, la circostanza, ossia quel complesso di costumi e tradizioni formato dalle azioni del passato opportunamente rimodellate attraverso il perfezionamento dell’abitudine, e tramandate nel tempo grazie al successo riscontrato nel loro utilizzo da chi ci ha preceduto. Questa complessa articolazione dell’agire umano va in crisi proprio per il prevalere di costumi e tradizioni, ossia della preminenza del contesto storico e sociale, sulla primordiale propensione individuale a voler dare un carattere personale alla propria esistenza. Non si tratta di negarne l’importanza o di farne tabula rasa come vorrebbe Rousseau, ma di consentire ad ogni singola vita di conservare quanto di quei costumi e tradizioni permettono un personale punto di vista in rapporto con il proprio tempo, la vita è sempre una faccenda maledettamente individuale. Il ritiro in noi stessi chiamato da Ortega ensimismamiento, l’immedesimazione, non è una fuga ma la costituzione di un luogo dove ognuno, riflettendo sulla propria singolare esperienza, ha la possibilità di elaborare i prodotti più eccellenti ma anche gli errori più terribili, da selezionare attraverso l’esperienza per tentare di risolvere il proprio dramma. La mente slegata per un po’ dalla propria circostanza – attingendo dalla fantasia – è in grado di produrre da quest’unica fonte: tanto la logica che la mitologia, le scienze naturali come la poesia e la musica; ma anche le guerre e le più terribili forme di sopraffazione verso i propri simili, quando questi prodotti intellettuali si affrancano dalle singole esistenze per assumere vita propria come vorrebbe il moderno razionalismo. La storia del Novecento ci ha insegnato che non fu certo la raffinatezza dell’elaborazione intellettuale a mancare ai totalitarismi di tutti i colori, anzi, ieri come oggi quei sistemi continuano a suscitare proprio per quel carattere raziocinante un enorme fascino verso le menti più brillanti.

L’aperta polemica contro ogni forma di intellettualismo fa dell’attenzione alla storia e alla sociologia dell’ultimo Ortega non un tentativo verso una svolta sistematica della sua filosofia – ritenuta proprio perché a-sistemica “incompleta” da una certa critica – al contrario, storia e sociologia si prendono il posto che le spetta nell’agire umano, esse procurano il “materiale” utile ad estendere attraverso il rapporto con l’altro, occasioni di libertà individuale. L’Ortega storico però si guarda bene dall’aderire ad ogni filosofia della storia, come hanno fatto tanti suoi predecessori; ed anche l’Ortega sociologo, pur riconoscendo l’autonomia del fatto sociale, rifugge da ogni sociologismo. Senza entrare nei dettagli dell’analisi, è sempre la sua originale impostazione filosofica ad affrancarlo da quegli errori, Ortega non cerca l’uguaglianza, l’identità la sostanza direbbe il filosofo razionalista, nel fatto storico o sociale, certo la nota, ne coglie il valore, ma la subordina alla singola esistenza, sottraendosi per quella via da ogni visione sistemica. L’unica vera propensione all’uguaglianza della nostra specie è proprio questa comune tensione ad essere liberi ognuno a suo modo, spesso maldestramente etichettata come egoismo dal farisaico moralismo di ogni tempo. Il trade off tra queste istanze: la mia libertà e lo stesso diritto riconosciuto in capo all’altro, hanno trovato il loro massimo potenziamento e possibilità di espressione nelle istituzioni liberali per eccellenza: mercato, democrazia e stato di diritto. Ortega è certamente parte di questa tradizione, la sua vita pubblica tra le due guerre mondiali rappresenta una testimonianza inconfutabile in tal senso, ne avverte però anche i limiti e ne prefigura la crisi come dicevamo. Da qui nasce il suo sforzo di coniugare la comune propensione alla libertà con ogni singola esistenza, che è per chi scrive il lascito più importante del suo filosofare al pensiero liberale, nonché il presupposto necessario per emendare il liberalismo dagli stessi tratti intellettualistici imputati al razionalismo. Difatti furono quegli stessi limiti a rendere i leader liberali del tempo completamente impreparati nell’affrontare la crisi degli anni Venti e Trenta, inadeguatezza che si concretizzò nell’incapacità di elaborare una seria opposizione alla mentalità totalitaria prevalente allora in gran parte dell’Europa, causa prima dei regimi totalitari poi sfociati nella Seconda guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra la tradizione liberale, attraverso l’affermazione del cosiddetto modello liberaldemocratico, ha saputo coniugare la libertà del singolo nei termini tratteggiati da Ortega con le grandi istituzioni elaborate dalla nostra storia e dal nostro vivere insieme; così il mercato, la democrazia, le libertà civili garantite dallo stato, sono ritornate almeno per l’Occidente il motore più efficiente per garantire ed espandere la nostra individualità. Tuttavia, la crisi del modello liberaldemocratico di questi anni insegna, nonostante gli auspici di Fukuyama, che “la storia non ha fine”; per questo tornare ad Ortega può non essere un vezzo intellettuale ma quanto mai essenziale. Difatti se quelle stesse istituzioni di nuovo in crisi, ritornano ad essere meccanismi autonomi estranei alle singole vite e al loro bisogno di scegliere liberamente il senso del proprio vivere nei limiti sopra delineati; ora come allora, nel mercato, il consumatore viene sopraffatto dall’egoismo degli oligopoli, la democrazia, anziché preservare le diversità cede alla dittatura della maggioranza, lo stato, posto a tutela delle libertà individuali diventa onnipotente e totalitario; tutti Moloch accomunati da un unico scopo: la soppressione dell’individuo libero.

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