STATO – TASSE

SINOSSI

Lo stato è uno strumento non deve mai essere idolatrato come fine in sé stesso, la sua funzione principale è, attraverso il monopolio della forza, garantire il massimo grado di libertà individuale. L’uomo non trova la libertà in natura, essa è il frutto dell’organizzazione sociale. La legge è lo strumento con cui devono essere regolamentate tutte le attività dello stato e dei suoi funzionari, mentre per i cittadini le leggi limitano in precisi ambiti – tutto ciò che non viola la legge – la loro libertà. Le tasse sono il mezzo con cui tutti concorrono in proporzione ai propri consumi al funzionamento dello stato. Ogni tentativo di distribuzione di ricchezza da parte dello stato presuppone la raccolta della medesima attraverso le tasse, non solo lo stato nel fare ciò non ne crea, ma per organizzarla ne consuma. Quando abbiamo la sensazione di una riduzione delle tasse è spesso frutto di illusioni finanziarie architettate dallo stato mediante il frazionamento delle medesime a discapito degli ignari cittadini, lo stesso vale quando crediamo di ricevere servizi “gratuiti” dallo stato solo perché non siamo in grado di risalire alle tasse che li finanziano. Abbandonando il principio generale di azione sotto il governo della legge per favorire alcuni a discapito di altri (la cosiddetta giustizia distributiva), si finisce per alimentare ogni arbitrio anche quando quei favori nascono con le migliori intenzioni; difatti qualsiasi governo dotato di un potere discrezionale finirà per abusarne, sollecitato come inevitabilmente sarà da gruppi di pressione che sempre si formano in queste circostanze. La progressività nella tassazione è giustificata nella misura in cui compensa il peso superiore che questa assume in percentuale sui redditi più bassi, non oltre; è bene infine legarne il prelievo il più possibile ai consumi per evitare di scoraggiare risparmio e investimenti.

 

CITAZIONI

Montesquieu – Lo spirito della legge – (pag. 275 -277)

Esistono in ogni stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile. In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, o corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo punisce i delitti o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello stato. La libertà politica, di un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha della propria sicurezza; e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino. Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti e le liti dei privati.

Adam Smith – La ricchezza della nazione – (pag- 851 – 852)

Scartati così completamente tutti i sistemi preferenziali o limitativi, si stabilisce spontaneamente l’ovvio e semplice sistema della libertà naturale. Ogni uomo, purché non violi le leggi della giustizia, viene lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse a suo modo e di mettere la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quello di ogni altro uomo o categoria di uomini. Il sovrano è completamente dispensato da un dovere nell’adempimento del quale è sempre esposto a innumerevoli delusioni e per il giusto adempimento del quale nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovrintendere alla attività di privati e di dirigerla verso occupazioni più idonee all’interesse della società. Secondo il sistema della libertà naturale, il sovrano deve attendere soltanto a tre compiti: invero tre compiti di grande importanza, ma chiari e comprensibili al comune intelletto: primo, il compito di proteggere la società dalla violenza e l’invasione di altre società indipendenti; secondo, il compito di proteggere per quanto è possibile ogni membro della società dall’ingiustizia o oppressione di ogni altro membro, ossia il compito di instaurare un’equa amministrazione della giustizia; e, terzo, il compito di creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute nell’interesse di un individuo o di un piccolo numero di individui, perché il profitto non potrebbe mai ripagarli del costo benché spesso questo costo possa essere ripagato abbondantemente a una grande società.

Ludwig von Mises – Lo stato onnipotente – (pag. 71 – 73)

Lo stato è essenzialmente un apparato di costrizione. Il tratto caratteristico delle sue attività è quello di costringere la gente, attraverso l’applicazione o la minaccia della forza a comportarsi altrimenti da come gli piacerebbe comportarsi. Ma non ogni apparato di costrizione e coercizione è definito uno stato. Solo uno che è potente a sufficienza da conservare la propria esistenza, per almeno un certo tempo, attraverso la sua propria forza è comunemente definito uno stato. Una banda di rapinatori, che a causa della debolezza relativa delle sue forze, non ha alcuna speranza di resistere con successo, per un certo tempo, ad un’altra organizzazione, non ha diritto di essere chiamata stato. Lo stato eliminerà o tollererà una banda. Nel primo caso la banda non è stato, perché la sua indipendenza dura per un breve periodo di tempo soltanto; nel secondo caso non è uno stato perché essa non si regge sulle proprie forze. Le bande responsabili dei pogrom nella Russia imperiale non erano uno stato perché potevano uccidere e razziare solo grazie alla connivenza del governo. Questa restrizione della nozione di stato porta direttamente ai concetti di territorio e sovranità dello stato. Il fatto di mantenersi sulla propria forza implica che ci sia uno spazio sulla superficie della terra dove il funzionamento dell’apparato non è limitato da un intervento di un’altra organizzazione; questo spazio è territorio dello stato. La sovranità (suprema potestas, potere supremo) significa che l’organizzazione si regge sulle proprie gambe. Uno stato senza territorio è un concetto vuoto. Uno stato senza sovranità è una contraddizione in termini. L’insieme complessivo delle regole in base alle quali quelli che governano fanno uso di costrizione coercizione è chiamato legge. Eppure, la caratteristica propria dello stato non sono queste regole come tali ma l’applicazione o la minaccia della violenza. Uno stato in cui i capi non riconoscano che una regola, cioè di fare qualsiasi cosa sembri, al momento, essere opportuna ai loro occhi, è uno stato senza legge. Non fa alcuna differenza se questi tiranni siano o meno “benevoli”. Il termine legge è usato anche in un secondo significato. Noi chiamiamo leggi internazionali l’insieme degli accordi chi gli stati sovrani hanno concluso espressamente o tacitamente con riferimento alle loro mutue relazioni. Non è comunque essenziale per una organizzazione che sia stato che gli altri stati debbano riconoscere la sua esistenza attraverso la conclusione di accordi. E’ il fatto della sovranità su un territorio che è essenziale, non la formalità. Le persone che dirigono la macchina dello stato possono assumere altre funzioni, doveri o attività. Lo stato può possedere e gestire scuole, ferrovie, ospedali e asili per orfani. Tali attività sono solo accidentali nella concezione dello stato. Qualunque altra funzione possa assume lo stato, lo stato è sempre caratterizzato dalla coercizione e dalla costrizione che esercita. Con una natura che è quella che è, lo stato è una istituzione necessaria e indispensabile. Lo stato è, se correttamente amministrato, il fondamento della società, della cooperazione e della civiltà umana. Esso è lo strumento più benefico e più utile agli sforzi dell’uomo per promuovere la felicità e il benessere umano. Ma è soltanto uno strumento e un mezzo, non il fine ultimo. Esso non è dio. Esso è semplicemente costrizione e coercizione; è il potere della polizia. E’ stato necessario soffermarsi su queste verità evidenti perché le mitologie e le metafisiche dello statalismo sono riuscite ad ammantarsi di mistero. Lo stato è una istituzione umana non un essere sovrumano. Colui che dice stato intende costrizione coercizione. Chi dice: dovrebbe esserci una legge su questa materia, intende dire: gli uomini dello stato dovrebbe costringere la gente a fare ciò che non vuole fare o a non fare ciò che vuole fare. Chi dice: questa legge dovrebbe essere meglio osservata, intende dire: la polizia dovrebbe costringere la gente a obbedire a questa legge. Chi dice lo stato è dio, deifica armi e prigionieri. Il culto dello stato è il culto di uomini incompetenti, corrotti e abbietti. I mali peggiori che l’umanità ha mai dovuto sopportare le furono inflitti da cattivi governi. Lo stato può essere ed è stato nel corso della storia la fonte principale di mali e rovine.

Milton & Rose Friedman – Liberi di scegliere – (pag. 145 – 146)

Il primo stato moderno che introdusse su scala abbastanza vasta il tipo di misure assistenziali che sono diventate popolari nella maggior parte delle società odierne fu il giovane impero tedesco sotto la direzione del “cancelliere di ferro” Otto von Bismarck. All’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento egli introdusse un ampio programma di sicurezza sociale, che offriva ai lavoratori una assicurazione contro gli infortuni, la malattia e la vecchiaia. I suoi moventi erano una complessa mescolanza di interesse paternalistico per le classi inferiori e di astuzia politica. Le sue misure servivano a neutralizzare il richiamo esercitato dai socialdemocratici, da poco comparsi sulla scena politica. Può sembrare paradossale che uno stato essenzialmente autoritario aristocratico come la Germania nel periodo precedente la Prima guerra mondiale – nel gergo odierno “una dittatura di destra” – abbia aperto la strada all’introduzione di misure che sono generalmente associate al socialismo e alla sinistra. Ma non c’è nessun paradosso, anche tralasciando le motivazioni politiche di Bismarck. I sostenitori dell’aristocrazia e quelli del socialismo hanno in comune la fede nel governo centralizzato, del governo per mezzo dell’autorità piuttosto che della cooperazione volontaria. La differenza sta in chi dovrebbe governare: per gli uni una élite predestinata dalla nascita, per gli altri degli esperti che si suppongono scelti sulla base del merito. Entrambi proclamano, senza dubbio sinceramente, di desidera il benessere della “collettività”, di sapere meglio della gente comune che cos’è l'”interesse pubblico” e come raggiungerlo. Entrambi dunque professano una filosofia paternalistica. Ed entrambi finiscono, se giungono al potere, per fare gli interessi della propria classe in nome del “benessere generale”.

Ayn Rand – La virtù dell’egoismo – (pag. 130 – 131)

Se si vuole bandire la forza fisica dalle relazioni sociali, l’umanità ha bisogno di una istituzione incaricata di proteggerne i diritti nell’ambito di un codice di regole oggettivo. E’ questo il compito del governo, di un governo giusto. Si tratta di un compito fondamentale, della sua sola giustificazione morale, della ragione che fa sì che l’umanità abbia bisogno di un governo. Il governo è lo strumento per porre l’impiego della forza a fini di rappresaglia sotto un controllo oggettivo, ossia sotto leggi oggettivamente definite. La differenza fondamentale fra l’azione privata e l’azione del governo, (una differenza che oggi viene continuamente ignorata e aggirata) si trova nel fatto che il governo detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza. Il governo deve necessariamente detenere tale monopolio, in quanto si tratta dell’agente che vincola e combatte l’uso della forza. Proprio per tale ragione, l’ambito delle sue azioni deve essere rigorosamente definito, delimitato e circoscritto; nel suo agire non dovrebbe essere tollerata neppure l’ombra del capriccio e dell’arbitrio, il governo dovrebbe essere una sorta di automa impersonale, mentre le leggi rappresentano l’unica sua forza motrice. Affinché una società possa dirsi libera, il suo governo deve essere controllato. Nell’ambito di un sistema sociale giusto, un individuo privato è giuridicamente libero di intraprendere a suo piacimento qualsiasi azione (purché non violi i diritti altrui), mentre un funzionario governativo è vincolato dalla legge in ciascuno dei propri atti. Un individuo privato può fare tutto ciò che vuole, tranne quello che gli è giuridicamente proibito, mentre un funzionario governativo non può fare alcunché, tranne ciò che gli viene giuridicamente permesso. Questo è il metodo per subordinare la forza al diritto. Questa è l’idea americana di “governo delle leggi” e non degli uomini.

Luigi Einaudi – Il buongoverno – (pag. 577 e 580 – 581)

Il problema fondamentale della società moderna non sarà avviato a soluzione, se gli uomini non si persuaderanno che esiste un solo vero nemico del progresso e della libertà e questo è il mito dello stato sovrano, il mito dell’assoluta indipendenza degli uomini viventi in un dato corpo politico dagli altri uomini viventi in un altro corpo politico. Quel mito e null’altro fu alla radice delle due grandi guerre mondiali, poiché lo stato, ove sia sovrano perfetto, non può non essere autosufficiente in sé stesso, ed è costretto a conquistare lo spazio vitale bastevole alla sua propria vita indipendente. Deve perciò conquistare il mondo. L’Attila di ieri fu un mero strumento di questa idea infernale. Un pazzo si fece banditore di quell’idea, ma era e rimane nell’animo di molti, di troppi uomini. Sinché non l’avremo strappata dal nostro animo, non avremo pace. Coloro che fanno risalire il trionfo della guerra o della pace al prevalere di questa o di quella classe sociale, capitalista o proletaria, non sanno ragionare. Industriali ed operai, proprietari e contadini, professionisti e artigiani, tutti sono dal proprio interesse costretti a voler la pace; poiché la pace vuol dire arricchimento altrui e quindi arricchimento proprio; vuol dire mercati fiorenti e quindi alta produzione; vuol dire progresso tecnico, epperciò incremento del benessere. Il mondo civile, attraverso guerre che oggi appaiono piccole, ebbe pace dal 1815 al 1914; e mai non si ebbe tanto avanzamento economico in tutte le classi sociali, tra i lavoratori non meno che tra gli industriali, come in quel secolo d’oro. Ma se gli uomini cadono preda del sofisma dello stato sovrano assoluto autonomo e indipendente, essi vogliono logicamente anche lo stato autosufficiente, conquistatore dello spazio vitale, spinto da una forza fatale alla conquista del mondo intero, perché solo con la conquista totale si raggiunge l’autosufficienza e l’indipendenza compiuta. Sovranità piena politica non è possibile se non esiste anche la indipendenza economica. Se si debbono chiedere altrui materie prime, carbone, se si deve chiedere altrui licenza di passare attraverso mari e stretti non si è veramente sovrani perfetti. Sovranità e autosufficienza economica (autarchia) sono indissolubilmente legate l’una all’altra. Chi vuole sovranità e autosufficienza vuole perciò la conquista senza fine di tutto il mondo conosciuto, vuole la guerra perpetua. Il mito della sovranità perfetta dello stato è dunque la vera e sola causa della guerra. Stati tirannici aristocratici o democratici, individualisti o socialisti, oligarchici o operai, se cadono vittima di quel mito, se rifiutano di riconoscere la verità che l’esistenza propria è condizione all’esistenza altrui, si fanno inconsapevolmente paladini del principio dell’autosufficienza economica; e di fatto quasi sempre gli stati, credendosi sovrani, furono ugualmente senza distinzione di regime, in passato e saranno in avvenire protezionisti contro le merci straniere; vietarono e vieteranno l’immigrazione dello straniero; vietarono e vieteranno ai connazionali di conoscere le civiltà straniere se queste siano più alte; mossero e muoveranno alla conquista di fiumi, di mari, e di porti e di mercati; furono e saranno conquistatori di terre abitate da altre genti. La teoria dello “spazio vitale” non fu peculiare all’Italia fascista o alla Germania nazista. La vedemmo trionfare in Persia, a Roma, in Egitto, nella Spagna di Filippo II, nella Francia di Luigi XIV e di Napoleone, spingere la Russia comunistica al pari di quella zaristica alla conquista dei continenti e dei mari caldi, portare, quasi per caso e in ossequio a cieche forze elementari, l’Inghilterra nell’India, in Australia, e farle attraversare tutta l’Africa da Alessandria d’Egitto alla Città del Capo. L’uomo di stato il quale crede all’autonomia perfetta dell’idea di stato, è costretto a battagliare senza tregua per toccare la meta ultima irraggiungibile del dominio universale, alla pari di colui che, cavalcando la tigre, non può – ammonisce la leggenda indiana – balzare a terra per la paura di essere divorato…

… Noi federalisti non difendiamo una tesi la quale sia a vantaggio di alcun paese egemonico, né dell’Inghilterra, né degli Stati Uniti, né della Russia. Vogliamo porre il problema nei suoi nudi termini essenziali, affinché l’opinione pubblica conosca quali condizioni debbono essere necessariamente osservate affinché l’idea federalista possa contribuire, invece di porre ostacoli, al mantenimento della pace. Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra la quale segni la fine dell’Europa, si scelga la via della società delle nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della distruzione totale, si vada verso l’idea federalista. La via sarà tribolata e irta di spine; né la meta potrà essere raggiunta d’un tratto. Quel che importa è che la meta finale sia veduta chiaramente e si intenda strenuamente raggiungerla. Perché l’idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Perché essa è fondata sul principio dello stato “sovrano”. Questo è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza baderà a quel che accade fuori di quei limiti, è oggi anacronistico e falso. Quel concetto è un idolo della mente giuridica e formale e non corrisponde ad alcuna realtà.

Benjamin Constant – Principi di politica – (pag. 337 – 338)

Il sistema dei premi e degli incentivi presenta minori inconvenienti rispetto a quello dei privilegi e ciò nonostante mi sembra pericoloso sotto diversi profili. In primo luogo si corre il rischio che l’autorità – una volta arrogatasi il diritto di intervenire nella sfera economica, anche se soltanto con incentivi – venga ben presto indotta, se tali incentivi non sono sufficienti, a ricorrere a misure coercitive e di rigore. Raramente l’autorità si rassegna a non vendicarsi per lo scarso successo dei suoi o tentativi. Essa rincorre il suo denaro come fanno i giocatori: ma mentre questi ultimi si appellano alla fortuna, l’autorità spesso si appella alla forza. In secondo luogo, si corre il rischio che l’autorità, attraverso incentivi straordinari, distolga il capitale dalla sua destinazione naturale, che è sempre la più redditizia. I capitali si dirigano da soli verso l’impiego che offre possibilità di guadagno. Per attirarli non c’è bisogno di incentivi: e per gli impieghi che potrebbero dare perdite, gli incentivi sarebbero funesti. Ogni attività economica che non può sostenersi indipendentemente dagli aiuti dell’autorità finisce per essere una attività di second’ordine. Allora il governo paga gli individui perché essi lavorino in perdita: e pagandoli sembra in qualche modo indennizzarli. Ma poiché gli indennizzi si ricavano unicamente dalle imposte, sono in definitiva i cittadini che ne sopportano il peso. Infine, gli incentivi dell’autorità recano un grave attacco alla morale delle categorie produttive. La morale si compone della sequenza naturale tra cause ed effetti. Alterare questa sequenza significa nuocere alla morale: e tutto ciò che introduce il caso tra gli uomini li corrompe. Tutto ciò che non è l’effetto diretto, necessario, abituale di una causa, ha più o meno la natura del caso. Ciò che rende il lavoro la causa più efficace di moralità è l’indipendenza in cui si trova l’uomo laborioso rispetto agli altri e la dipendenza in cui egli si trova nei confronti della sua propria condotta e dell’ordine, della consequenzialità e della regolarità che mette nella sua vita. Questa è la vera causa della moralità delle categorie occupate in un lavoro regolare e dell’immoralità così comune negli accattoni e nei giocatori. Questi ultimi sono i più immorali tra tutti gli uomini, perché sono quelli che fanno più affidamento sul caso. Gli incentivi e gli aiuti del governo per le attività economiche sono una specie di gioco. E’ impossibile supporre che l’autorità conceda i propri aiuti e i propri incentivi soltanto a coloro che lo meritano o che li accordi sempre nella giusta quantità. Un solo errore in questo genere di cose trasforma gli incentivi in lotterie.

Frédéric Bastiat – Sofismi economici – (pag. 248)

 Se vi dicono: “lo stato deve conoscere tutto e tutto prevedere per dirigere il popolo, e il popolo non deve far altro che farsi dirigere”. Rispondente: “vi è forse uno stato al di fuori del popolo, e una lungimiranza umana al di fuori dell’umanità?” Archimede avrebbe potuto ripetere tutti i giorni della sua vita: “datemi una leva e un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo”, senza avere potuto per questo sollevarlo, proprio per la mancanza di punti d’appoggio e di una leva. Il punto d’appoggio dello stato è la nazione; e non c’è nulla di più insensato che fondare tante speranze sullo stato, perché vorrebbe dire supporre un’intelligenza e una lungimiranza collettiva, dopo aver date per certe l’imbecillità e l’ingenuità individuali”.

Frédéric Bastiat – ” Lo stato” in “Il potere e l’illusione” (pag. 42)

Lo stato è la grande finzione attraverso la quale tutti cercano di vivere alle spalle di tutti gli altri.

Amilcare Puviani – Teoria della illusione finanziaria (pag. 171 – 176)

Una nuova mitigazione della sensazione penosa deriva dal frazionamento dell’imposta. Una nuova fallacia sull’entità tributaria che dobbiamo qui chiarire, la qual deriva da un processo inverso quello, che dà origine al fallace discorso del capitolo precedente. La nuova forma di illusione non scaturisce più da un aggruppamento di certe pene tributari fra loro, bensì da una loro dissociazione, da un loro frazionamento e da una loro regolare e conveniente distribuzione nel tempo… In primo luogo essa si fonda su due leggi psicofisiche… La prima consiste nell’inettitudine del nostro sistema nervoso a produrre sensazioni penose di contro a minimi stimoli. Perché si determini una sensazione occorre che lo stimolo raggiunga una certa entità. Piccolissimi pesi non producono in noi un senso di pena… La seconda legge della nostra sensibilità, di cui si avvantaggia l’imposizione frammentaria, consiste nell’incapacità del nostro sistema nervoso a produrre sensazione sempre ed esattamente proporzionali agli stimoli. Ad una serie di stimoli esterni qualitativamente e quantitativamente eguali, e posti a certe distanze fra loro, non corrispondono sensazioni eguali, ma di intensità decrescente…Ma la decrescente affinità dell’imposta, se da un lato dipende da una legge propria del nostro sistema nervoso, la quale interessa la fisiologia e la psicologia, dipende inoltre da altre considerazioni, le quali trovano delucidazioni dalla teoria della finanza. La resistenza alle prime note di un tributo raggiunge la massima intensità per ragioni molteplici, le quali poi, nel progresso del tempo, vengono meno. Anzitutto le prime rate d’imposta eccitano ad una resistenza violenta, extralegale, un certo numero di persone, le quali stimano che la rivolta, il tumulto riescano ad indurre il governo ad abrogare la recente legge finanziaria. Se, come d’ordinario accade, il malcontento popolare non ottiene quel risultato, dopo un certo tempo ogni opposizione violenta all’imposta cessa. Quanto più presto si diffonderà la convinzione dell’impotenza degli sforzi privati contro la legge, tanto più presto tesserà la resistenza extralegale.

Ayn Rand – La virtù dell’egoismo – (pag. 103)

Roma è caduta, ridotta alla bancarotta dai controlli statali e dalla tassazione, mentre i suoi imperatori edificavano colossei. Luigi XIV tassò il proprio popolo fino a ridurlo alla fame, mentre costruiva il palazzo di Versailles, affinché i monarchi dell’epoca glielo invidiassero e i futuri turisti lo visitassero. La metropolitana di Mosca, lastricata di marmo, costruita dal lavoro “volontario” non retribuito dei lavoratori russi, donne comprese, è un monumento pubblico, così come lo è il lusso di stampo zarista dei ricevimenti a base di caviale e champagne nelle ambasciate sovietiche, necessario – mentre la popolazione aspettava in coda di ricevere inadeguate razioni alimentari – per “mantenere il prestigio dell’Unione Sovietica”. Il grande merito degli Stati Uniti, almeno fino a pochi decenni fa, stava nella modestia dei loro monumenti pubblici. Quelli che esistevano avevano uno scopo autentico: non erano stati eretti a fini di “prestigio”, ma erano strutture funzionali che avevano ospitato eventi di importanza storica. Se avete potuto vedere l’austera semplicità della Indipendence Hall avrete potuto comprendere la differenza tra l’autentica grandeur e le piramidi utili solo a placare la sete di prestigio di governanti “animati dallo spirito del servizio pubblico”. In America, le energie umane e le risorse materiali non sono state espropriate allo scopo di edificare monumenti e progetti pubblici, ma sono state spese per promuovere il benessere privato, personale e individuale dei singoli cittadini. La grandezza americana sta nel fatto che i suoi veri monumenti non sono pubblici. Il profilo di New York rappresenta un monumento di uno splendore che nessuna piramide né alcun palazzo potranno mai raggiungere. Eppure i grattaceli di New York non sono stati costruiti con fondi pubblici, né per la pubblica utilità, ma sono stati eretti dall’energia, dall’iniziativa e dalla ricchezza di singoli individui a fini di profitto privato.

Friedrich A. von Hayek – La società libera – (pag. 422 – 423)

L’entità e la varietà delle attività dello stato, conciliabili almeno per principio con un sistema libero, è notevole. La vecchia formula di laissez faire o di non intervento non ci fornisce uni criterio adeguato che ci permetta di distinguere tra quanto è ammissibile e quanto è inammissibile in un sistema libero. Le ampie possibilità di sperimentazione e di miglioramento esistenti nell’ambito della struttura giuridica fissa rendono possibile in una società libera di operare molto efficacemente. Probabilmente, non possiamo mai avere la certezza di avere già trovato i migliori accorgimenti o le migliori istituzioni per far funzionare nel migliore dei modi l’economia di mercato. E’ pur vero che, una volta stabilite le condizioni di base di un sistema libero, ogni ulteriore miglioramento istituzionale non potrà che essere lento e graduale. Ma la continua crescita della ricchezza e delle conoscenze tecniche, resa possibile da questo tipo di sistema, suggerisce costantemente alle pubbliche autorità nuovi modi mediante cui prestare servizi ai cittadini e portare tale possibilità nella sfera del praticabile. Qual è allora la ragione della tanto persistente pressione per eliminare le limitazioni imposte allo stato a garanzia della libertà individuale? E, se il governo della legge offre tante possibilità di progresso, perché i riformatori hanno lottato per indebolirlo e scalzarlo? La risposta è che fra le ultime generazioni sono emersi nuovi fini politici, irraggiungibili ove ci si mantenga entro i limiti imposti dal governo della legge. Un governo che possa servirsi della coercizione solo imponendo le norme generali non può realizzare certi fini particolari, che richiedono mezzi diversi da quelli esplicitamente affidatigli e, in particolare, non può determinare la posizione particolare di certe persone o imporre la giustizia distributiva o “sociale”. Per realizzare tali fini, il governo deve perseguire una politica molto esattamente descritta dal termine francese dirigisme – visto che pianificazione è parola così ambigua – ossia, una politica che determina per quali speciali scopi ci si debba servire di particolari mezzi. Ciò è pero quel che le autorità vincolate dal principio della legge non possono fare. Se deve poter determinare come debbano essere collocate particolari persone, lo stato dev’essere in grado di determinare la direzione degli sforzi individuali. Non riteniamo necessario ripetere in questa sede le ragioni per cui, se lo stato tratta allo stesso modo persone diverse, i risultati saranno diversi, o la ragione per cui, se permette che ognuno usi a piacimento capacità mezzi di cui dispone, non saranno prevedibili le relative conseguenze a carico dei singoli. Le restrizioni imposte dal governo della legge alle pubbliche autorità impediscono pertanto l’uso di tutti quei provvedimenti necessari a garantire che gli individui siano compensati in base all’idea che un altro abbia del merito e della ricompensa e non secondo il valore che i loro servizi hanno per i loro simili: o, che è in fondo la stessa cosa, impediscono il perseguimento della giustizia distributiva, contrapposta a quella commutativa. La giustizia distributiva richiede che l’allocazione di tutti i mezzi sia affidata ad una autorità centrale; richiede che si dica agli individui quel che devono fare e quali finalità devono servire. Laddove il fine è la giustizia distributiva, le decisioni su ciò che si deve far fare ai diversi individui non possono derivare dalle norme generali, ma devono essere prese alla luce dei particolari scopi e della particolare conoscenza dell’autorità pianificatrice. Come abbiamo già visto, quando la decisione su quanto debbano ricevere le diverse persone è presa in base all’opinione dell’autorità sarà anche la stessa autorità a decidere cosa debbano fare. Questo contrasto tra l’ideale della libertà e il desiderio di “correggere” la distribuzione dei redditi in modo da renderla più “giusta” non è in generale esplicitamente riconosciuto. Ma in pratica chi persegue l’ideale della giustizia distributiva si troverà ostacolato ad ogni passo dal governo della legge.

Montesquieu – Lo spirito della legge – (pag. 368)

Regola generale: si possono fissare tributi più forti, in proporzione della libertà dei sudditi, e si è costretti a moderarli man mano che la schiavitù aumenta: ciò è sempre avvenuto e sempre avverrà…

…Ma la regola generale rimane sempre valida. C’è negli stati moderati, una contropartita per il peso dei tributi: è la libertà. C’è negli stati dispotici un equivalente per la mancanza di libertà: è la modicità dei tributi.

Luigi Einaudi – Saggi sul risparmio e l’imposta – (pag. 25 – 26)

Or dunque lo stato, il quale ha abbandonato ogni speranza di accertare direttamente la quantità di reddito consumato, la accerterà indirettamente, appostandosi al varco in quei passi dove l’uomo deve necessariamente transitare per convertire la moneta, il numerario indistinto, in cui si concreta la ricchezza destinata al consumo, in beni, i cui servizi egli appunto vuol consumare. Se si potesse immaginare che lo stato conoscesse ogni via che deve compiere il numerario destinato al consumo per trasformarsi in servizi di beni effettivamente consumati, l’imposta ideale sarebbe raggiunta. Nessuna diversità sostanziale esisterebbe tra l’imposta pura sul reddito consumato e questa, che per brevità e per conformarci all’uso universale diremo imposta sui consumi. La differenza, secondarissima, sarebbe soltanto nel momento dell’accertamento del reddito: nel primo caso volendosi accertare la quantità del numerario destinata al consumo e nel secondo caso la quantità dei servigi utili acquistata con il numerario. Non si può disconoscere persino che la palma dell’eccellenza spetterebbe al secondo metodo; perché, se anche si riuscisse, cosa per fermo assurda, ad accertare la quantità di numerario destina al consumo, non potrebbe evitarsi, – per impossibilita a compiere le indagini ai consumi fatti, quando cioè il reddito più non esiste e quindi spesse volte difetterebbe le maniere di esigere coattivamente l’imposta, e per la necessità di fare perciò gli accertamenti prima dell’avvenuto consumo – una non frequente discrepanza fra le quantità di numerario destinato al consumo e la quantità di numerario di fatto consumata; ben potendo darsi che nel frattempo l’uomo abbia mutato proposito e destinato al risparmio ciò che prima voleva consumare e viceversa. L’imposta sui consumi sfugge a questa obiezione; poiché aspetta a colpire il numerario nell’istante medesimo in che l’uomo effettivamente lo trasforma in servigi consumati di beni o di persone. Se il contribuente non paga fitto di casa, neppur paga l’imposta sul valor locativo; se non tiene domestici o automobili, non viene su di essi tassato; e tarda a pagare i tributi sul caffè, lo zucchero, il vino, il pane, finché non li abbia effettivamente acquisiti. Per raggiungere la perfezione che sopra si è detto basterebbe che il fisco sapesse appostare una gabella al varco per ogni via percorsa dal numerario per trasformarsi in consumi; e su ogni consumo prelevasse un tributo rigorosamente proporzionale.

Friedrich A. von Hayek – La società libera – (pag. 541)

Sarà bene dire subito che l’unica progressività di cui ci occuperemo e che pensiamo non si possa nel lungo periodo conciliare con le istituzioni libere è la progressività della tassazione nel suo complesso: ossia, quando si considera l’intero sistema tributario, la tassazione gravante in misura più che proporzionale sui redditi più elevati. Le singole imposte, e soprattutto l’imposta sul reddito, possono con ragione essere graduate, in modo da compensare la tendenza, propria di molte imposte indirette, a incidere in forma proporzionalmente maggiore sui redditi minori. Questo è l’unico argomento valido a favore della progressività. Ma esso può essere riferito solo a particolari imposte, come parte di una data struttura fiscale, e non può pertanto essere utilizzato per il sistema tributario nel suo complesso.

Ludwig von Mises – Libertà e proprietà – (pag. 19 -20)

 La filosofia romantica si nutriva dell’illusione che nei primi secoli della storia l’individuo fosse stato libero e che il corso dello sviluppo storico lo avesse privato della sua libertà originaria. Jean Jacques Rousseau sosteneva che la natura aveva concesso all’uomo la libertà e la società lo aveva asservito. In realtà, l’uomo primordiale era alla mercé di ogni individuo più forte e che comunque poteva privarlo dei suoi scarsi mezzi di sostentamento. Non c’è niente in natura a cui possa essere attribuito il concetto di libertà. Questa si riferisce sempre ai rapporti sociali tra esseri umani. E’ vero, la società non può realizzare il concetto illusorio di indipendenza assoluta dell’individuo. All’interno della società ogni individuo dipende da cosa le altre persone sono disposte a dare per il suo benessere in cambio del proprio contributo alla loro prosperità. La società è essenzialmente un mutuo scambio di servizi. Fin quando gli individui hanno la possibilità di scegliere, essi sono liberi; se essi sono costretti dalla violenza o dalla minaccia della violenza a sottomettersi ai termini dello scambio, non importa cosa pensino in proposito, essi sono privi di libertà. Lo schiavo è oppresso proprio perché il padrone gli assegna i compiti e determina cosa deve ricevere se vi adempie. A proposito dell’apparato sociale di repressione e di coercizione, il governo, non può esservi nei suoi confronti alcuna richiesta di libertà. Il governo è essenzialmente la negazione della libertà. E’ il ricorso alla violenza o alla minaccia della violenza a far sì che tutti i cittadini – lo vogliano o no – obbediscano ai suoi ordini. Non appena la giurisdizione del governo si estende, c’è coercizione, non libertà. Il governo è un’istituzione necessaria, il mezzo per garantire che il sistema sociale di cooperazione funzioni correttamente, senza essere disturbato da atti violenti da parte di criminali interni o esterni. Il governo non è, come alcuni amano dire, un male necessario; esso non è un male, ma un mezzo, il solo mezzo disponibile per garantire la pacifica coesistenza umana. Ma ciò non toglie che esso sia l’opposto della libertà. Esso picchia, imprigiona, impicca. Nel compiere qualsiasi impresa un governo è sostenuto dalle azioni di agenti armati. Se il governo costruisce una scuola o un ospedale, i fondi richiesti sono raccolti mediante l’imposizione fiscale, ossia tramite la riscossione di pagamenti estorti ai cittadini. Se prendiamo in considerazione il fatto che, per com’è la natura umana, non possa esserci civiltà né pace senza il funzionamento dell’apparato coercitivo governativo, possiamo considerare il governo come la più benefica istituzione umana. Ma resta il fatto che il governo è repressione, non libertà. La libertà può essere trovata solo in quella sfera in cui il governo non interferisce.

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