CAPITOLO QUARTO – LA LIBERTA’ ECONOMICA E I SUOI NEMICI –

4.1 Tanti interpreti un solo soggetto: la fine della libertà economica

Separare l’azione economica dal contesto politico e spirituale in cui avviene è l’arma da sempre usata da tutti detrattori della libertà economica, l’azione umana esprime sempre per intero la complessità della sua naturale aspirazione alla libertà. Ad avvelenare il clima verso l’economia ha contribuito non poco tanta letteratura della classe intellettuale contro la scienza economica, l’ignoranza intorno ai meccanismi dell’economia è il minimo comune denominatore, ma ci sono due filoni distinti di motivazioni a fungere da catalizzatore di tanto astio. Il primo è l’interesse di casta della politica professionale e della classe intellettuale latu sensu, entrambi nei rispettivi ruoli impegnati a piegare l’economia al proprio tornaconto senza però con questo perseguire l’obiettivo di mettere in discussione l’economia di mercato. Per il secondo filone viceversa, ossia, gran parte del movimento socialista, cristiano e cattolico in particolare, la ribellione all’economia di mercato è stato l’obiettivo comune, tanto da costituire una vera e propria ideologia alternativa al sistema capitalistico. Partiamo da quest’ultima posizione, celebri sono diventate le invettive di Marx – anche per l’effetto che ebbero sull’intero movimento socialista vista l’indubbia preponderanza della sua personalità – verso ogni economista non disponibile a piegare la propria scienza all’ideologia materialista, ridotti tutti per questa “colpa” alla categoria di “sicofanti”, ossia “delatori prezzolati”. L’esecrabile disprezzo che lo stesso Marx riservò ad uno spirito veramente nobile ed integerrimo nonché attento alle implicazioni morali e spirituali dell’economia quale fu il Bastiat, mostra il carattere strumentale di tale atteggiamento francamente non degno di uno studioso del suo calibro. Danni non meno importanti, propulsori di enorme diffidenza e pregiudizio verso l’economia li ha fatti gran parte della cultura cristiana, cattolicesimo romano in testa. Con l’eccezione della sparuta minoranza liberale, quella cultura si è distinta per l’intransigenza assoluta verso il movimento liberale nella cosiddetta battaglia contro il “modernismo” a tutela di una tradizione da secoli abituata a vedere la chiese al centro di ogni comunità mondana. A ben vedere, proprio la comune avversione al liberalismo è stato il trait d’union tra due movimenti in apparenza distanti, diverso però è stato l’approccio alla critica dell’economia. Il marxismo seppur incapace di comprendere il calcolo economico lì concentra la sua critica. In particolare, travisa completamente il carattere soggettivo del valore e il conseguente ruolo del consumatore quale guida della catena del valore nell’economia di mercato, quindi per quella via non sarà in grado di soppesare la continua fluttuazione di tutti i fattori in campo che compongono il valore al variare della domanda. Difatti, solo tenendo insieme: certamente il lavoro ma anche l’impresa, il risparmio con la rendita, la divisione del lavoro e della conoscenza e l’intimo legame di queste con lo sviluppo tecnologico e le risorse naturali, si riesce a cogliere per intero la complessità del calcolo economico senza ridurlo, come vorrebbe Marx, a risultato arbitrario frutto della prepotenza di uno dei fattori, il capitalista. Così la complessità del reale rilevata dal calcolo economico diventa l’insostituibile bussola preposta a misurare l’incremento del valore, soppesando in modo puntuale scarsità o abbondanza e per quella via dirigere nel modo più efficacie tutti i fattori in campo. E sarà proprio per l’impossibilità del calcolo economico – come rileverà L. von Mises nella sua poderosa analisi del socialismo, ben prima che l’esperimento si diffondesse nell’Europa orientale – a rendere quell’analisi tanto verace da resistere ad ogni possibilità di confutazione e a prevedere il tracollo di quei regimi settant’anni prima. Il marxismo invece, ha per un verso semplificato enormemente il quadro: valore = lavoro, così tutto il valore economico prodotto che non viene pagato al lavoratore entra in una apposita categoria formulata da Marx, il plus-valore, impropriamente a suo dire trattenuto dal capitalista ai danni del lavoratore. Ecco così servito il piatto forte che contrappone senza possibilità di contatto il capitale al lavoro, lo sfruttamento, propulsore che trasforma l’analisi delle categorie economiche in un formidabile carburante per la diffusione della lotta di classe. A dare però all’economia marxista quel carattere esoterico che ha affascinato un paio di generazione di studiosi di varia provenienza non è stata certamente la suddetta modesta analisi economica, ma l’aver inserito il capitalismo, “civettando” con la dialettica hegeliana, per usare le parole di Marx, nel più generale processo storico di sviluppo materiale della società, il cui compimento per lo storicismo marxista non può che concludersi con l’inevitabile avvento del socialismo. La natura messianica dell’ideologia marxista assume per quella via un vero e proprio carattere religioso, non è quindi da considerare un incidente della storia la frequente comunanza fra movimento socialista e una parte del cristianesimo; tutt’al più i due – quando non si mettono d’accordo, come sempre accade in chi ha una visione totalitaria della società – litigano su chi deve comandare. Non bisogna però sminuire le profonde differenze esistenti tra le due ideologie, in particolare l’approccio del cristianesimo all’analisi economia. Anche il cristianesimo ha completamente travisato le categorie dell’economia politica ma lo ha fatto senza alcun intento “scientifico”, non ha coltivato alcuna ambizione di emendare o confutare le categorie della scienza economica, la critica cristiana ha perseguito un taglio prettamente morale. Sarà proprio questo rivolgersi alle ragioni del cuore, a rendere quella critica ancor più efficace e pervasiva sulla mentalità delle masse, gareggiando e in non pochi casi surclassando lo stesso socialismo. Così il profitto, anziché essere sentito come il giusto compenso per avere fornito un bene conforme ai desideri dei consumatori, mentre la perdita un segnale in grado di indurre l’imprenditore a cambiare linea d’investimento, vengono associati a sentimenti di egoismo o di ingiusta punizione. Sulla stessa falsariga la meritoria funzione di chi risparmia, unico modo per incrementare investimenti e di conseguenza produttività, è stata da sempre accostata all’avarizia, pertanto un peccato e per questa ragione nascosto, oppure espiato attraverso “opere di bene” a volte meritorie, più spesso però, proprio per quell’origine mendace e di facciata, alla base di diffusa corruzione e doppiezza morale. La stessa ricerca di alti interessi da parte di chi investe, non è sentita come sinonimo di giusta ricompensa per chi dirigere quei soldi nei rami produttivi più richiesti nonché premio per i maggiori rischi, bensì oggetto di pubblico ludibrio, di invidie; tutti sentimenti volti ad avvallare l’idea che dietro al profitto soprattutto se alto ci sia sempre alla meglio il furbo che se ne approfitta, o peggio veri e propri reati coperti da leggi inique a favore di questo o quel potente. Quando questo moralismo incapace di cogliere le virtù del mercato viene costretto dalla realtà a fare i conti con il fallimento economico, cala ogni maschera bonaria per assumere ben più truci sembianze. Sul fallimento economico di tanti esperimenti socialisti o peronisti come anche sul coinvolgimento di tanta gerarchia cattolica nell’avvento e nel sostegno al Fascismo e al Nazismo c’è poco da dire, la storia ha dato sentenze senza appello. Purtuttavia, fatica a morire di quelle esperienze una certa retorica costantemente al lavoro per riabilitarne una parte di quei regimi, pensiamo all’idea del “fascismo buono fino ad una certa data” ancora parte di un largo senso comune, o al tentativo di “giustizia sociale” implicito nell’esperimento socialista, da tanti tuttora ritenuto sbagliato nei mezzi ma giusto nel fine. Occorre con forza dire di no a queste vere e proprie “leggende metropolitane”, non solo perché un’analisi un po’ meno superficiale di qualsiasi regime totalitario mostra come dietro ogni presunta posizione “sociale” c’è sempre la pelosa benevolenza di un qualche ramo della burocrazia al potere ovviamente in cambio del supporto incondizionato allo status quo, che nei regimi totalitari si traduce in un perentorio: “chi non obbedisce non mangia”, altro che giustizia. Questo collante ha reso quei regimi tanto pervasivi nella vita culturale e morale dei paesi che ne sono stati vittima; così il fascismo, ma anche nazismo e comunismo sono diventati vere e proprie “autobiografie della una nazione”, per citare la celebre definizione che diede del primo Piero Gobetti. Fare fino in fondo i conti con il proprio passato non può restare un vezzo dello storico ma unico presupposto per un futuro migliore, lo abbiamo visto con fascismo e nazismo nel secondo dopoguerra e lo riviviamo oggi nelle difficoltà ad uscire dalla mentalità totalitaria incontrate da parte dei paesi dell’est Europa dopo la caduta del comunismo. Il successo di quei regimi e il riprodursi di quell’idea di giustizia “sociale o distributiva” anche ai giorni nostri fa leva su un sentimento molto diffuso in ogni organizzazione che persegua un fine preciso e circoscritto, ossia l’idea che il merito debba essere direttamente proporzionale al grado di obbedienza e di zelo apportato da ognuno per raggiungere il fine collettivo perseguito. Pensiamo ad un’organizzazione militare o anche ad ogni azione organizzata volontaria volta a perseguire un fine circoscritto e condiviso, proprio questo presupposto implica la volontaria rinuncia ad attività altre da quelle prescritte dall’organizzazione a cui si appartiene, ma anche a fini diversi; gerarchia e burocrazia sono sinonimo di efficienza come lo sono obbedienza e fedeltà. Il mercato è un’altra cosa, ognuno persegue liberamente i propri fini e sceglie la professione a lui più congeniale per raggiungerli. Ne è però per questo interamente responsabile, il successo è direttamente proporzionale al valore economico attribuito a quei mezzi da chi li acquista per fini che nulla hanno a che vedere con i nostri meriti o bisogni; la cosiddetta “giustizia commutativa” è la solo giustizia compatibile con la nascita e il successo dell’ordine di mercato. Ascoltiamo le ispirate parole di F. A. von Hayek:

“Si dovrebbe liberamente ammettere che l’ordine di mercato non produce una stretta corrispondenza tra meriti soggettivi o i bisogni individuali e la remunerazione. Esso opera, infatti, sulla base del principio di un gioco combinato di abilità e caso, in cui i risultati ottenuti da ciascun individuo possono essere determinati tanto da circostanze totalmente al di fuori del suo controllo, tanto dalla sua capacità o sforzo. Ognuno è remunerato secondo il valore che i suoi servizi particolari hanno per le singole persone a cui li rende, e questo loro valore non sta in nessuna relazione necessaria con qualcosa che noi potremmo appropriatamente chiamare i suoi meriti o ancor meno con i suoi bisogni.”

C’è però un secondo ordine di idee che rende la condanna ai totalitarismi priva di alcuna attenuante, il liberalismo mostra senza possibilità di confutazione che dietro all’imprenditore e all’investitore dei propri risparmi in un’impresa economica certo non può non esserci anche il loro interessa, ma la loro azione economica per avere successo deve avere l’avvallo del più alto numero di consumatori possibile, inoltre più l’impresa è complessa più necessità dei migliori collaboratori. La diffusione dell’istruzione, e con essa tutto quello che comporta per il benessere individuale, a partire da una necessaria e generale sempre maggiore cura della salute psico-fisica di ogni cittadino, non è una benevola concessione dell’economia di mercato ma connaturata ad essa e precondizione al suo successo. Queste sono veri e propri presupposti per avere personale specializzato e motivato al successo dell’impresa, inoltre implicano istruzione e cura di sé, un certo livello di benessere che può essere garantita solo da crescenti retribuzioni, stimolate anche dalla competizione tra chi intraprende per avere al proprio servizio il personale migliore, unico vincolo possibile in un’economia libera. Proprio questa necessità di dovere ricercare la collaborazione del prossimo per sottostare al volere di tutti i consumatori, non può che avvenire in un quadro di rispetto del comune sentimento di giustizia e di considerazione delle molteplici sensibilità; per questo l’economia di mercato cresce solo mediante un allargamento del sentimento di ciò che è sentito come moralmente giusto e di ciò che è giuridicamente lecito, obiettivi perseguibili solo in un quadro politico ed economico democratico. Se poi un qualche gruppo sociale, accomunati dal proprio specifico interesse, cerca di imporlo al resto – caso non infrequente anche nelle liberaldemocrazie ben funzionanti – ci sarà la concorrenza a spuntar loro le unghie. Gli imprenditori come i lavoratori che voglio imporre un loro prodotto o un loro prezzo al consumatore finale, subiscono i primi il fallimento economico e i secondi la perdita del lavoro. Certo come più volte sottolineato in queste pagine a volte la ricetta è troppo dura, bisogno perciò guidare e supportare il cambiamento di chi ha la peggio nello sviluppo economico con la giusta solidarietà, la quale però non deve diventare un pretesto per fermarlo. Proprio la complessità che deve necessariamente supportare quell’imparare a fidarsi l’uno l’altro per produrre più mezzi possibili al benessere collettivo, è il risultato di un lungo e articolato processo storico di diversi fattori morali e giuridici ma anche politici ed economici accomunati dalla tensione verso un concreto sviluppo della libertà individuale. Da questo punto di vista risulta totalmente velleitaria ogni idea di “esportazione della democrazia”. Le liberaldemocrazie non sono però minacciate solo da chi le vuole sopprimere, non meno pericolosi per la loro sopravvivenza risultano nel lungo periodo i parassiti allevati dalle tante distorsioni insite nel medesimo sistema sociale. Di questa pasta è l’avversione al liberalismo di tanta parte della classe politica e della burocrazia statale di professione per semplici ragioni di casta: si vuole sì subordinare il mercato alla politica ma costoro se ne guardano bene dal volere strozzare la gallina dalle uova d’ora. Certo l’utilizzo dello stato e della spesa pubblica per garantirsi il consenso inevitabilmente riduce l’efficacia del libero mercato e contribuisce a screditarlo agli occhi dei comuni cittadini, di norma però si fermano prima di crisi irreversibili. Il risultato di questi tentativi del potere politico di piegare l’economia di mercato ai propri bisogni produce quello che la letteratura economica ha chiamato Crony Capitalism, non è in sé letale ma è stato spesso prodomo agli esperimenti totalitari.  Diverso è il discredito provato da gran parte di coloro che svolgono un lavoro intellettuale nell’abito dell’economia capitalista, qui il sentimento che la fa da padrone è l’invidia sociale nonché la sopravvalutazione dei propri mezzi. Entrambi sono un chiaro prodotto del vivere democratico, i vecchi regimi autocratici del passato separavano a tal punto le classi da renderle tra loro non confrontabili e quindi non oggetto di invidie, perdere il controllo di questi istinti antisociali li trasforma in potenti morbi tali da mettere in pericolo la sopravvivenza dei medesimi regimi democratici. Proprio la natura interclassista della politica democratica rende il paragone col prossimo in termini di successo economico assai comune, in particolare si tende ad associare il merito – o meglio quello che ognuno di noi secondo una propria scala di valori considera meritevole – con il successo o l’insuccesso economico ottenuto attraverso la propria professione. Ci sono due grossi fraintendimenti riguardo al ruolo dell’economia di mercato in quest’idea: non bisogna mai dimenticare che, seppur attenta alle conseguenze morali delle sue azioni, l’economia di mercato rimane un processo sociale finalizzato alla produzione di beni. Pertanto, a qualunque attore che partecipa alla produzione, a prescindere dal ruolo che ricopre, non è dato il potere di disobbedire ai bisogni del consumatore, pena l’esclusione dal processo. Attenzione però bisogni non desideri, i primi si creano quando qualcuno è disponibile a pagare i soldi richiesti per soddisfarli, e quindi a fare i sacrifici necessari per guadagnarli; mentre per i desideri basta l’appetito. Purtroppo però, per dirla con Milton Friedman: “non esiste alcuna cosa di nome pasto gratis”, così spesso vorremmo che a pagare i nostri desideri fosse il prossimo. Questo significa – quando non troviamo nessuno disponibile a farlo – che fino a quando il bisogno di hamburger è più alto di quello di bistecche fiorentine, produrre più bistecche della domanda in termini economici significa mortificare una parte del più qualificato e lodevole impegno dei produttori di bistecche fiorentine, costretti a fallire, a favore del meno pregiato lavoro dei produttori di hamburger. Così come se la preferenza dei consumatori, per prodotti ad esempio di letteratura o musica volgare in confronto alla corrispettiva colta è maggiore rispetto a quest’ultima, non può ricadere in capo al produttore il ruolo di “educare” il consumatore, questo deve limitarsi a servire al meglio quanto richiesto nel rispetto delle leggi generali. Chi ambisce a diventare un grande filosofi o un grande poeta non può lamentarsi se la sua fama, se ci sarà, sarà postuma. Costoro assurgono all’aggettivo “grande” solo se nei rispettivi campi innovano il canone tradizionale, e quanto più lo fanno tanto più quell’aggettivo si assolutizza, così facendo è evidente che solo pochissimi avranno il gusto e la preparazione per riconoscerli e conferire loro il giusto valore, mentre servirà tantissimo tempo perché quelle innovazioni diventino patrimonio comune. Anzi quasi sempre sarà proprio l’intellighenzia ufficiale, nata per preservare e valorizzare la tradizione, a costituire un formidabile ostacolo al rinnovamento. Quindi il successo postumo per il genio è il prezzo da pagare alla fama imperitura, chi vuole godere legittimamente del successo in vita deve servire i consumatori, per quello che sono non per come li vorrebbe. Questo però non deve farci pensare che la produzione di massa sia dedita a propinarci solo prodotti scadenti, tutt’altro. Proprio in questi anni abbiamo visto crescere assieme alla “famigerata globalizzazione” un certo raffinamento dei gusti nel consumo di massa, pensiamo all’abbigliamento o ai mobili, grandi catene di produzione hanno permesso attraverso una crescente economia di scala e a una formidabile innovazione tecnologica, sempre maggiore attenzione alla qualità senza tuttavia penalizzare il design, coniugati a uno stupefacente abbassamento dei prezzi; sempre più il capo firmato anticipa solo la moda comune, e i tempi tra il primo e il secondo si accorciano costantemente. Tutto questo, occorre ricordare, si tiene solo se abbiamo ben presente la suddetta differenza tra bisogni e desideri e le responsabilità che ne conseguono verso i primi, al contrario che per i secondi per i quali basterebbe chiudere gli occhi. Ma torniamo alla questione del merito, un’altra fonte di errore è la sopravvalutazione dei propri e la conseguente propagazione dell’invidia sociale vera malattia connaturata ai regimi democratici. Pensiamo alla presunta superiorità vantata dal lavoro impiegatizio rispetto a chi compie lavori manuali, i primi solo perché frequentano il ceto imprenditoriale, i dirigenti, tendono a confondere il loro lavoro di supporto con quello di quest’ultimi e per quella via sono propensi a denigrare e a sottovalutare i lavori manuali, senza accorgersi che le loro funzioni “intellettuali” sono spesso mansioni ripetitive e prive di effettivo valore aggiunto se paragonate al lavoro manuale. Cosa che invece non sfugge all’imprenditore, ben consapevole di quali siano le cose che inducono il suo cliente a preferire il suo prodotto o addirittura a pagarlo anche un po’ di più per averlo rispetto all’analogo prodotto del concorrente. Così a nulla valgono i lamenti di tanto ceto impiegatizio se l’”irriconoscente” imprenditore preferisce correre appresso con più alti salari a più ruvidi operari che alle loro buone maniere nello svolgere il fedele servizio. Bisogna infine ben inquadrare il ruolo dell’imprenditore, anch’gli preso spesso di mira da larga parte dell’élite intellettuale per la sua presunta rozzezza. Vediamo quali sono i compiti dell’imprenditore troppo spesso associato alla sola funzione di colui che ci mette i soldi: cogliere quali sono tra gli infiniti desideri che nutrono ognuno di noi quelli che si trasformeranno in bisogni, quali tra questi vengono sentiti come i più urgenti e quindi identificare quelli disposti a pagare il prezzo più alto, inoltre mettere insieme i mezzi materiali e intellettuali per soddisfarli al meglio centrando ovviamente il calcolo economico. Solo chi riesce a tenere insieme tutto questo con successo, beninteso decretato ma anche tolto dai soli consumatori, può fregiarsi del titolo di imprenditore. Ebbene, che che ne dicano gli intellettuali, per fare tutto ciò occorre un cervello e un intuito tutt’altro che comune. Magari l’imprenditore sarà privo degli studi classici di un membro dell’accademia dei Lincei, tuttavia tra i due passa la stessa differenza tutta a favore del primo: tra chi innova e migliore quello che c’era prima e chi tutt’al più lo conserva al meglio. Tant’è che l’imprenditore non è un titolo che si trasmette di generazione in generazione com’era per la vecchia aristocrazia, e come vorrebbe far credere la stessa mentalità anticapitalista di tanta parte del ceto intellettuale, quando associa con fare spregiativo i titoli della vecchia aristocrazia agli imprenditori di maggior successo. Il “re del cioccolato” rimarrà tale fino a quando i consumatori, unici sovrani col loro acquisto, gli confermeranno il loro “voto”, non appena l’imprenditore viene meno alle suddette funzioni sociali decade di nuovo al rango di lavoratore o, se sarà bravo a investire il patrimonio accumulato, a gestore di una rendita. In questa disamina abbiamo visto quattro diverse forme e anche quattro diversi gradi di nemici dell’economia libera, tutte però accomunate dalla medesima forma mentis. F. A. von Hayek l’ha riassunta nella formula “Fatal Conceit”, “Presunzione Fatale”. Ossia l’idea che una società così complessa e articolata come quella moderna, nata per “produrre” individui e per questo concepita sul fondamentale apporto di ognuno, possa essere pensata, programmata e diretta nel suo sviluppo dalla mente magari superiore ed eccezionale di uno o di un gruppo ristretto di persone o sostenuta dalla grazia divina. Non è quindi da considerarsi un incidente di percorso l’enorme contributo dato da gran parte del ceto intellettuale alla denigrazione e ai tentativi di sovvertimento dell’economia libera. Proprio quella consapevolezza, magari fondata, di superiorità intellettuale, proprio quell’idea di dare valore solo a ciò che è intellettualmente riducibile alle categorie della ragione, hanno spinto e spingono le migliori menti verso quella “presunzione”; impedire che diventi “fatale” rimane uno dei compiti più complessi e ben lungi dell’essere risolto tuttora dinnanzi alla modernità.

4.2 Perché non c’è alcun motivo per non avere fiducia: apologia della ricchezza

L’economia libera invece, ha proprio nella sua capacità di avvalersi per funzionare dell’insostituibile conoscenza dispersa di cui è portatore ognuno dei suoi membri, la sua maggior forza rispetto alle diverse forme economiche succedutesi nel passato. Quella forza si esprime: nella capacità di intraprendere, di migliorare le soluzioni esistenti, di inventarne delle nuove, il tutto sollecitato dal crescente premio in denaro, il quale – proprio per la sua semplice funzione di segnale quando non è manipolato – ha l’enorme pregio di arrivare ed indicare a tutti la via da seguire. Ed è in quella sua stessa capacità di mobilitare ogni energia che risiede la sua vera natura democratica, non occorre mai dimenticare, contrariamente alle precedenti forme economiche, che il capitalismo è tale nella misura in cui diviene produzione di massa, il cercare di arrivare a tutti è parte della sua essenza. Non solo, il denaro attraverso il meccanismo dei prezzi è il formidabile diffusore di informazioni di ogni gusto e preferenza dei consumatori; i quali, senza alcun bisogno di coordinazione, indirizzano l’azione dei produttori verso quei rami della produzione dove c’è più necessita, sottraendo viceversa risorse dove non servono. Questo meccanismo è tale da non temere la possibile concorrenza di alcun cervello centrale che, per quanto grande, non potrà mai neanche riuscire a simularne l’estensione e la precisione nel raccogliere e indirizzare i comportamenti di ognuno. Facciamo attenzione a questo passaggio, luogo di numerosi fraintendimenti sia per tanti economisti di professione che per i cittadini comuni. L’economia non è un fatto tecnico o matematico, come hanno pensato i tanti teorici neoclassici con i loro tentativi di risolvere il rebus economico mediante le equazioni differenziali in cerca di un punto di equilibrio tra domanda, offerta o tra prezzo e costo, come fa oggi tanta sociologia popolare: quando cerca di attribuire analoghi poteri agli algoritmi di Google nel predire e guidare i gusti dei consumatori. Viceversa, l’economia è espressione di una tensione ideale. Il vero propulsore del movimento economico è la risultante delle propensioni spirituali di ognuno verso i propri progetti esistenziali che si sviluppano nel tempo: partono nel passato si realizzano nell’ora ma tendono al futuro. Il “dato” economico non è un participio passato ma un risultato sempre in fieri oggetto di costanti aggiornamenti, per questo non riducibile ad una formula anche se pensata da un genio o elaborata da un cervello elettronico potentissimo. Quella tensione spirituale che avvolge il dato economico si compone dei nostri sogni, dell’idea che ci siamo fatti di noi stessi, del mondo che ci circonda e di come lo vorremmo trasformare conformemente alle nostre idee; certo nel dato economico permane ovviamente una certa utilità materiale ma ridurlo a quella è una semplificazione fuorviante. Ed è proprio questo essere in buona sostanza un formidabile strumento capace di coinvolgere tutte le forza materiali e spirituali in capo ad ognuno, a rendere la potenza prodotta dall’economia moderna incomparabilmente maggiore ad ogni economia del passato, differenza tale da far risultare prive di senso alcun paragone tra le medesime. Solo in questi termini i numeri percentuali di incremento della ricchezza riportati nel prologo, dal 2,700 al 10,000 per cento rispetto a solo 300 anni fa, acquisiscono appieno la portata della rivoluzione in atto, qui non c’è alcuna progressione come tanta economia storicista vorrebbe far crede, ma un cambio di paradigma che abbisogna di essere percepito come tale per essere compreso. Siamo così abituati a contrapporre la ricchezza spirituali a quella materiale, a vedere in questa il risultato di un compromesso morale al ribasso o addirittura a identificarla nella veste di premio proprio per la mancanza di ogni forma di diritto in nome della prevaricazione del più forte, che suonerà strano porla a corollario della diffusione della libertà e per quella via: dovere ripensare il nostro rapporto con la ricchezza, qui sta la chiave della modernità economica. Per millenni difatti la ricchezza è stata correttamente associata: alla rapita, alla prevaricazione del più forte sul più debole, o al prodotto lì sì dello sfruttamento sottratto agli schiavi o alle tante classi di subumani a cui libri di storia non hanno dedicano che poche righe. Come vedremo nella seconda parte il liberalismo rappresenta da questo punto di vista lo sforzo di ripensare o meglio sovvertire nei diversi ambiti il rapporto con la ricchezza. In termini morali assisteremo al superamento di un’astratta ed eteronoma quanto spesso di facciata morale altruistica a favore di un’autonoma morale individuale in perenne ricerca della miglior coniugazione tra l’interesse individuale, nel rispetto delle medesime esigenze riconosciute al prossimo, semplificabile nella formula: win-win. Lo stesso diritto ha messo al centro della sua azione normativa il diritto di proprietà favorendone la diffusione e l’incremento, regolando, per usare la formula di Bruno Leoni, le “pretese” di ciascuno introducendo nel diritto meccanismi propri del mercato per misurare e per quella via normare incorporandolo: il massimo valore soggettivo di ogni pretesa. Sulla stessa falsariga si muove il rapporto di equilibrio tra economia e politica: la scienza politica subisce il veto della scienza economica quando la sua azione riduce la ricchezza prodotta, così come l’azione economica diventa succube dell’azione politica quando grazie a questa aumenta la ricchezza prodotta. Affronteremo dicevo nella seconda parte il nesso individuato dal liberalismo tra lo sviluppo della libertà individuale e la crescita della ricchezza in tutte le sue sfaccettature, in questo capitolo però ci siamo dati l’obiettivo di evidenziare le condizioni che favoriscono la libertà e ciò che la ostacola, pertanto l’analisi della ricchezza si concentrerà sul rapporto di questa con la libertà. Per millenni hanno prevalso nei confronti della ricchezza due pregiudizi entrambi riassumibili nel concetto di dono. Fino quando è stata identificata come dono di un “Dio” o della “natura” lo sfruttamento per così dire della ricchezza era codificato e ritualizzato in procedure tramandate e limitate da una rigida tradizione che lasciava ben poco spazio all’iniziativa individuale, il risultato di questa visione è una società fortemente gerarchica e castale retrograda e sottosviluppata. Di questa eredità del passato rimangono tutti i pregiudizi morali nei confronti della ricchezza: in particolare la necessità di giustificarla o associarla verso qualche fine superiore che non fosse il mero arricchimento in senso lato, per quelle via si può ricostruire la nietzschiana genealogia dell’uomo: ”un animale che fa promesse” e così trovare la colpa, il peccato e la cattiva coscienza, e tutto l’armamentario di cui si è nutrito nei secoli tanta ideologia religiosa e non solo. Da tutto questo nasce l’enorme diffidenza a lungo anche ostentata, oggi un po’ meno, verso la libertà individuale e la necessaria autonomia morale in capo al singolo. Quando invece la ricchezza, complice la necessità di accrescerla, è diventata oggetto di commercio ed è stata identificata prima come un dono intrinseco alla natura rappresentata dai metalli preziosi poi al denaro, è iniziato un processo di identificazione di questa con ciò che la simboleggiava che ne permetteva lo scambio, tale da illudere che bastasse aumentare quei simboli per moltiplicare i “pani i pesci” reali. Si pensi alla scoperta dell’America e all’importazione in Europa di enormi quantità di oro nell’illusione che questo ci avrebbe fatto tutti più ricchi, quando invece a cambiare sono stati “solo” si fa per dire il valore nominale del prezzo delle cose, così: chi prima che aumentassero i prezzi in proporzione con l’incremento dell’oro si è sbarazzato dell’oro per beni concreti si è arricchito di più di chi invece li ha concretamente ideati e prodotti. Certo stimolati dall’oro tanti si sono dati da fare per produrre in numero maggiore i beni più richiesti, peccato che ad arricchirsi non sia stato chi più ha contribuito a creare la ricchezza reale ma chi ha aumentato la quantità di ciò che la simboleggiava scambiando il simbolo prima che il prezzo recepisse la variazione. Lo stesso è avvenuto quando, finita la febbre dell’oro, i sovrani hanno pensato che per avere più monete da spendere per le loro conquiste e per lo sfarzo delle loro corti fosse sufficiente alleggerire quelle in circolazione senza ovviamente cambiarne il valore nominale, per farne delle nuove con la quantità sottratta. Memorabili in tal senso rimangono le pagine del “Della Moneta” scritte dall’abate Galiani sul fenomeno da lui denominato dell’”alzamento” che con il moltiplicarsi degli strumenti finanziari atti a perpetrare l’inganno acquisirà nell’economia moderna un ruolo destabilizzante. Difatti, mentre ai tempi di Galiani questi si riducevano al Re che diminuendo il peso del metallo prezioso della moneta senza alterarne in prima istanza il potere d’acquisto creava quello che l’economia ha poi chiamato inflazione. Così quando quella moneta alleggerita finiva nelle mani del cittadino comune, costui era costretto a riceverla di minor peso pur fornendo lo stesso servizio del passato, per poi dovere cambiare la medesima moneta con meno merci nel frattempo rincarate in proporzione al minor peso. Oggi lo stesso effetto è producibile: dallo stato, dalle banche e da altre infinite diavolerie finanziarie, tutti potenziali come le si chiama oggi, produttori di bolle; di uguale è rimasto il medesimo inganno ai danni dell’ultimo ma anche il più numeroso della catena economica, il cittadino comune. Su questa mistificazione della ricchezza sono cresciuti tutti movimenti di “liberazione” che hanno dissociato e traviato il legame invece indissolubile e necessario tra il naturale desiderio di maggiore libertà in capo ad ognuno e la conseguente crescente responsabilità che essa comporta, solo sulla saldezza di questo legame può crescere una produzione sociale di ricchezza in tutte le sue accezioni senza limiti. Le società moderna non rischia di impoverirsi perché si esauriscono le “risorse naturali”, come un certo ambientalismo ideologico vorrebbe far credere, né per l’incremento “naturale” delle diseguaglianze sociali eterna malattia del capitalismo senza freni, come vorrebbe una vecchia sinistra incapace di rassegnarsi e rivedere la sua filosofia fallimentare. Quei pericoli sono reali proprio perché sono l’effetto di un liberalismo, anch’esso vecchio e inadeguato, incapace di ripensare le responsabilità culturali e morali insite in una società in grado di creare un incremento di ricchezza e libertà individuale davvero senza precedenti.