R. W. EMERSON E “L’AMERICAN WAY OF LIFE”

R. W. Emerson è stato il geniale fondatore dell’american way of life, a sua volta poi diventato, seppur tra diverse declinazioni, lo stile di vita dell’intero Occidente. Tratteggiarne pertanto i punti più significanti implica rimarcare differenze e contatti con la vecchia Europa, la quale, seppur sin dall’inizio attratta da quel modello, non ha tuttavia mai saputo imitarlo appieno; soprattutto non è stata fino in fondo capace di coglierne la rivoluzione morale e religiosa che ne costituiscono il carattere più originale. Del resto, e non poteva essere altrimenti, mentre gli Stati Uniti hanno potuto costruire ex novo le proprie istituzioni in una sorta di situazione “sperimentale”, l’Europa non ha avuto alternativa ad introdurre quelle medesime pretese da parte dei ceti meno abbienti di liberta e uguaglianza, che avevano spinto tanti cittadini europei ad immigrare verso l’America, all’interno delle istituzioni esistenti; ossia nel corpaccione della propria storia e delle inevitabili reazioni dei ceti privilegiati. In particolare l’Europa prima si è attardata a lungo attraverso l’unione di nobiltà e clero a difendere i vecchi privilegi feudali, mediante quello che poi gli storici hanno riassunto intorno al concetto di “ancien régime” nato da quel connubio. Quando poi gli esclusi hanno con la Rivoluzione Francese spazzato via quel sistema, si sono succeduti tentativi di restaurazione nati dall’alleanza di ciò che restava della vecchia aristocrazia e la nuova classe borghese, nel tentativo di contenere le suddette istanze riassumibili intorno all’aggettivo liberale. Così sono nate le politiche imperialiste, bisognose di nuovi mercati e materie prime ma anche di scaricare il costo di quelle richieste sui paesi conquistati, quando quelle contraddizioni senza risolversi confluiranno nel crogiuolo della Prima guerra mondiale, saranno poi, all’indomani del conflitto, i cosiddetti totalitarismi a reprimere ogni forma di libertà per mezzo di sistemi di comando più efficaci resi disponibili dallo sviluppo tecnologico e mediatico. Questa ideologia che ha coinvolto in diverso modo e grado gran parte degli stati europei, nella prima metà del Ventesimo secolo, con la non trascurabile e né casuale eccezione della Gran Bretagna, troverà in parte soluzione con la vittoria degli alleati guidati dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale; ma bisognerà attendere il 1989 con il crollo del regime Sovietico, per chiudere definitivamente quella terribile parentesi. Tuttavia, nonostante gli indiscussi avvicinamenti al modello americano registrati nel cosi detto periodo neo liberale iniziato con Thatcher e Reagan e chiuso con la crisi dei subprime del 2008, l’Europa non ha ancora saputo fare fino in fondo i conti con le tre novità più rilevanti dell’American way of life: individualismo, democrazia e mercato.

  • Individualismo

L’individualismo è il nucleo fondante della filosofia emersoniana, e ne costituisce anche il carattere più originale e distante dalla tradizione filosofica europea. Emerson inaugura una vera e propria “filosofia della vita” capace con un tratto di penna di liberarsi da secoli di speculazione metafisica, religiosa e morale, volta a prospettare “mondi dietro al mondo” a cui tendere nati con Platone, l’indiscusso fondatore della tradizione occidentale, a favore di un “ethos individuale quotidiano e immanente” non meno originale e pregnante. L’individuo non è il presupposto ma il risultato di un incessante potenziamento, riunire le forze intorno a pochi e peculiari obiettivi assieme al costante esercizio sono, più che talento e dono, quanto maggiormente serve ad ognuno per permettere di diventare ciò che si è. Contro ogni luogo comune, ostacoli ed errori sono l’humus su cui cresce con radici salde ogni effettiva acquisizione, così la compassione verso chi è svantaggiato, lo scoramento di fronte alle avversità e magari la ricerca di giustificazioni consolatorie, come poi verrà ampliamente argomentato da Nietzsche, costituiscono per Emerson un danno non solo per chi le riceve ma anche per i valori sociali che sottendono, ossia la ricerca di una “compensazione” in un altro mondo che non solo svilisce l’unica vita che abbiamo, ma induce a separare in modo manicheo il carattere plurale dell’esistenza, in particolare, quel suo essere capace man mano che la si esperisce di tenere insieme i valori più disparati che magari in un primo tempo ci paiono inconciliabili. Viene così meno ogni sentimento di vergogna verso le sconfitte e gli inevitabili inciampi, che la vita riserva sempre a chi fa della competizione e del continuo superamento dei propri limiti la cifra della propria esistenza. La vita non ama i monopoli preferisce valori plurali anche se confliggenti, chi non vuole sporcarsi le mani con il suo carattere contraddittorio e sempre cangiante finisce per depotenziare il presente verso nostalgie per un passato idilliaco, o non meno infondate aspettative per un futuro altrettanto irreale. Così la religiosità finora riposta su un “Dio trascendente” viene indirizzata su un “Io immanente” da costruire intorno al concetto di libertà individuale, ma anche come vedremo meglio parlando di democrazia e mercato intorno a istituzioni che dovranno – rispecchiando il nuovo assunto – anziché reprimere e comandare quell’Io, proteggerlo per favorirne lo sviluppo incessante nell’eterna lotta contro quello che Emerson chiama nei suoi saggi più famosi: “Fato” o “Natura”. La fiducia in sé stessi si nutre non solo attraverso azioni originali avulse da ogni imitazione, ma anche liberandosi da pressioni sociali presenti in ogni comunità, le quali tendono ad incatenare l’individuo, per dirla con Emerson: “a quella stupida coerenza spauracchio delle piccole menti, così cara ai piccoli politici, ai piccoli filosofi e ai piccoli teologi”. L’uomo che ha fiducia in sé stesso non ha nulla a che fare con la coerenza, e non certo perché si sottrae al commercio con il prossimo: semplicemente non cede alle sirene della tradizione, né alla pressione della maggioranza, alcunché della propria originalità per compiacere il numero. Certo verrà frainteso dai più per questa sua “incoerenza” e non potrà che risultare “inattuale” ai suoi contemporanei, per dirla con Nietzsche, ma questo è il prezzo inevitabile che si deve pagare se si vuole trasformare la “circostanza” cara ad Ortega, che ad ognuno il caso ha assegnato di vivere, nel proprio destino. Destino non più dominato dal “fato” con le sue leggi estranee alla nostra natura, ma quale risultato delle nostre scelte, certo fallibili e sempre emendabili, ma proprio per questo espressione della nostra libertà. In questo senso trova tutta la sua pregnanza il detto eracliteo: “il carattere di un uomo è il suo destino”. Si realizza così quell’imperare parendo baconiano caro a chi come Emerson, non solo non rinuncia alla fede ma ne coglie il suo essere sostanza del flusso vitale che avvolge ogni cosa; noi dirà Emerson: “non abbiamo alternativa al credere”, si tratta però di una fede totalmente avulsa ad ogni rito collettivo, da ogni gerarchia imposta da chierici o iniziati, i quali invece sono il tratto specifico di ogni religione ufficiale. Il dubbio della ragione nutre l’incessante divagare della nostra intelligenza, che per non cadere nello scetticismo deve essere sorretta da un altrettanto intransigente fede nella propria volontà, la vita il suo costante rafforzamento deve essere la nostra vera e ultima vocazione. Non c’è alcun contrasto con la ragione, anzi cogliere la causalità che spiega e avvolge ogni ambito dell’esistere certo trova i suoi limiti nel “fato” o “destino” che dir si voglia; ma al contempo ognuno può avvalersi dei risultati raggiunti dagli altri senza per questo far venir meno – ognuno con le sue originali caratteristiche – il proprio peculiare contributo, ci si potenzia per sé e “senza volere” si condivide il beneficio anche con il prossimo. L’individuo non è creatura passiva ma creatore del proprio destino, e non occorre essere speciali per affermarsi pienamente, ogni vita se ben interpretata è destinata a compiersi. Paradossalmente il “Più” dei meglio dotati anziché favorirli rischia di bloccarli, di indurli ad accettare passivamente la propria condizione magari crogiolandosi nelle iniziali posizioni di vantaggio, perdendo il naturale stimolo al miglioramento, al cambiamento, vero tratto dell’esistere. Viceversa, il “Meno” di chi è vittima di menomazioni o mancanze, lo induce per converso al costante tentativo di farsi carico della propria condizione per cambiarla, vale a dire ad intraprendere quel percorso che per usare la formula di Ortega y Gasset: trasforma la necessità della propria circostanza, per mezzo di volontà e fiducia, nella vocazione ad essere liberi. Questa fede nella ragione proprio per la sua “fallibilità”, per il suo essere mai definitiva, non cadrà in alcun “abuso della ragione”, come è invece avvenuto a tutti i movimenti politici nati all’Illuminismo francese, la cui logica totalitaria e pianificatrice ha inquinato la prima metà del Novecento europeo con risvolti veramente drammatici. Altresì rafforza quel sentirsi parte di un mondo dove spirito e materia, uomo e donna, bene e male, cultura e natura, sono esperiti in tutti i gradi dell’esistere in una sostanziale armonia tra opposti, che rende la speculazione emersoniana molto simile ai tre gradi di conoscenza spinoziana. Mentre se restiamo al primo grado di conoscenza percettiva ci perdiamo negli infiniti modi del mondo senza mai penetrarlo, con la ragione, il secondo genere di conoscenza, ci allena a tenere insieme quella varietà in concetti sempre più ampi, per condurci al terzo grado, la conoscenza intuitiva, dove guardando alle cose del mondo “sub species aeternitatis”, possiamo cogliere in ogni individualità del reale quel “deus sive natura” e sentirci proprio perché individui parte di un tutto, sentimento che il grande Spinoza codifica col termine “beatitudo”.

  • Democrazia

Non sorprende che da comuni esigenze di libertà ed eguaglianza inserite in contesti così diversi abbiano prodotto risultati decisamente distanti, l’individualismo egualitario nato con la rivoluzione americana ha ben poco a che spartire con l’egualitarismo classista prodotto dalla rivoluzione francese. In una società piena di individui convinti di essere padroni del proprio destino com’era l’America in cui era cresciuto Emerson, il loro frenetico attivismo raccontato con ammirazione nel capolavoro di Tocqueville “La Democrazia in America”, poteva sorprendere solamente un aristocratico francese qual era l’autore. Mentre nella sua Francia sono gli scontri fra classi e le coalizioni tra queste che decidono le sorti delle istituzioni e i cambi di regime, viceversa, in America ognuno si sente parte in causa di un processo collettivo dove però ognuno segue i propri fini individuali; le istituzioni che si formano devono per forza di cose riflettere la necessità per un verso: di essere comuni a tutti e al contempo incoraggiare e favorire l’assoluto rispetto del carattere sacrale della libertà individuale. La democrazia americana, la sua cura per la forma, riflette appunto l’idea di creare istituzioni capaci di governare per mezzo della legge, e per garantire in quei limitati ambiti regolati del vivere in comune l’essere il più possibile ognuno uguale al prossimo di fronte alle istituzioni; per però essere completamente individuo in tutti gli altri ambiti del vivere dove ognuno è legislatore di sé stesso, senza dovere giustificare ad alcuno le proprie propensioni individuali. Viceversa l’Europa, con la sua storia animata dai conflitti di classe, ha ben più marcata la propensione al livellamento di natura sociale, nasce da questo il carattere più intrusivo dello stato nei diversi ambiti del vivere sociale. Sebbene lontani dalle follie totalitarie della prima metà del Novecento, lo stato conserva anche nella seconda metà una dimensione e funzioni ben più preponderanti, nel suo costante tentativo di eguagliare intervenendo discrezionalmente verso i presunti “privilegi” di alcuni, utilizzati a pretesto per regolarne le attività e limitarne l’intraprendenza, al fine di evitare risultati troppo differenti. Quando Tocqueville denuncia i pericoli dell’omologazione e del controllo insiti nel regime democratico, arrivando in un famoso passo del suo capolavoro a vedere prodomi del totalitarismo, nella volontà del “pastore” di mantenere il proprio “gregge popolo” in uno stato di perenne “adolescenza” – magari assuefacendolo attraverso divertimenti materiali – a giudizio di chi scrive, l’autore parla e pensa decisamente più all’Europa che all’America. In particolare ha di mira il processo di democratizzazione in atto anche in Europa, dove le istituzioni più che il prodotto della volontà di individui che vogliono garantirsi ed ampliare la propria libertà, sono la concessione di élite che cercano di non perdere i vecchi privilegi, controllando le nuove istituzione egualitarie per mezzo di politiche populiste, e in questo modo assoggettando la forma democratica a rimanere ampiamente sotto il controllo di ceti aristocratici ristretti. Ed è quella stessa propensione al potenziamento individuale che tiene lontano l’America dal centralismo statalista assunto da tutti i nascenti stati nazionali europei, gli americani sono così gelosi della loro autonomia individuale da essere restii ad affidare completamente ad unico potere centrale anche le materie per eccellenza governate dallo stato come la sicurezza e la giustizia. In questo senso vanno intesi il secondo emendamento relativo all’inviolabile diritto a mantenere il porto d’armi, così come l’assegnazione di un forte ruolo riservato alle giurie popolari all’interno del sistema giudiziario americano. Sulla stessa falsariga sono un altro tratto tutto americano: il carattere elettivo di cariche quali i magistrati della pubblica accusa e i capi locali delle forze dell’ordine, entrambi soggetti attraverso il voto popolare ad un controllo diretto dei cittadini deputati a valutarne il servizio. Non meno importante è il ruolo complessivo della costituzione nei confronti dello stato, volto a ridurre e a delimitarne il potere del medesimo in precise procedure riassunte dalla formula check and balance. Mentre tante costituzioni europee – e quella italiana ne è un esempio da manuale – rappresentano una sorta di libro dei sogni dove ognuno può trovarci più o meno quello che vuole, quella americana è composta di tre parti, attenta soprattutto a dettare le procedure per l’effettiva divisione dei poteri e a disciplinare la distinzione delle competenze tra potere federale e statale. Inoltre, i padri costituenti non contenti, attraverso una serie di emendamenti, hanno introdotto una corazza contro ogni allargamento del potere statale a protezione dei diritti individuali. Hanno sostanzialmente preferito tutelare le libertà negative per dirla con Berlin, ossia le “libertà da” ogni intrusione per quanto possibile nella sfera privata dei cittadini da parte dello stato, anche a costo di limitare quelle che Berlin chiamava le libertà positive; vale a dire le “libertà di” più cittadini di coalizzarsi per ottenere attraverso legislazioni ad hoc “diritti” pagati da tutti. Questi tratti peculiari della democrazia americana hanno permesso a quel paese non solo di sottrarsi al fascino verso ogni forma di totalitarismo, ma anche di rinnovarsi pur rimanendo saldamente attaccata alla costituzione del 1787. Troppo lungo sarebbe ripercorrerne le gesta, ma la democrazia americana ha saputo coalizzare il suo popolo quando gli eventi lo richiedevano: pensiamo alla guerra civile o alla grande depressione, ma non meno importanti sono state le svolte politiche atte a riattivare l’individualismo insito nel carattere americano, quando la grande concentrazione di potere ha messo in discussione la libertà individuale, come nel periodo dei grandi Trust o del Big State degli anni Settanta del secolo scorso; insomma “E pluribus unum” come sta scritto sullo stemma degli Stati Uniti è un motto ben azzeccato.

  • Mercato

Dicevamo a proposito dell’individuo emersoniano e della piena fiducia in sé stesso e nella propria originalità, che l’unica uguaglianza attribuita ad ognuno sta proprio nelle stesse possibilità di realizzazione, a prescindere dalle condizioni in cui ci si trova “gettati” nell’esistenza. Ognuno è padrone del proprio destino, nel senso che le possibilità di “compensazione” non solo sono immanenti, ma sono pienamente accessibili ad ogni percorso esistenziale. Serve però una fede capace di trasformare ogni avversità, ogni limite naturale in un’occasione e supera ogni visione storicista, per conciliare la storia come narrazione di un epoca con la biografia di coloro che l’hanno vissuta. Certo in ogni tempo ci sono precursori che fanno la “storia”, ma ognuno è figlio della propria epoca e quindi ha il “tempo” e la possibilità di respirarla e di viverla in sintonia con quei precursori. Nella società moderna ogni individuo è considerato in termini morali a partire da Kant come fine in sé stesso, questa centralità di ogni individuo sconosciuta nelle civiltà precedenti, lo hanno reso sempre più oggetto di attenzioni, costantemente in grado di migliorarsi, il mercato è la palestra dove esercitare il proprio potenziamento continuo, i risultati sono misurabili e sono il frutto di esercizi con obiettivi limitati, concreti ma sempre emendabili. Nella società moderna produzione e consumo hanno sempre meno la funzione di sostentamento – certo questa permane ed è necessaria – ma sempre più quelle azioni si fondono con la nostra personalità, la nostra visone del mondo, possono assorbirci per intero o anche solo parzialmente, sono tuttavia parte attiva e dominante nel percorso esistenziale e spirituale di ognuno. Attraverso la conoscenza l’intera natura diventa un serbatoio inesauribile di vettori che ampliano all’infinto la potenza umana. L’uomo non è nato per conservarsi, come una certa tradizione vorrebbe, bensì si sviluppa continuamente in modo incessante, solo un sovrappiù costante di sempre maggior ricchezza fornisce all’individuo l’unica possibilità di godere a pieno dell’esistenza. La ricchezza non è un furto, ma il risultato del costante e prolifico rapporto prodotto da volontà e conoscenza umana applicati alla natura. L’uomo realizza i suoi fini spiritualizzando la natura, ossia mediante la formazione di un habitat sempre più complesso e articolato che solo per metonimia chiamiamo “naturale”, altresì è tutta “cultura”, ogni cosa che ci circonda è frutto del lavoro e dell’intelligenza di infinite generazioni capaci di adattare in modo sempre più efficiente i “mezzi” trovati in natura a propri “fini” sempre più raffinati. Ognuno però deve non solo arricchirsi ma rendere più ricco anche il mondo in cui vive, ecco perché il capitalismo, nel senso di capacità di investire in vista di un “profitto”, sarà remunerato dal consumatore solo se anche quest’ultimo riceverà dal prodotto di quell’investimento un sovrappiù di ricchezza per sé maggiore rispetto al valore ceduto. Non c’è nessun plus-valore espropriato attraverso lo sfruttamento come pensava Marx, ogni profitto è subordinato all’approvazione dei clienti-consumatori che, come recitavano i tanti cartelli esposti nei negozi americani degli anni Cinquanta: “hanno sempre ragione”. Il mercato incrementa costantemente la proprietà privata nella misura in cui, attraverso la concorrenza, domanda e offerta modificano e spostano i beni trasferendo ciò che è in più da una parte laddove manca, questa capacità di veicolari informazioni è una delle preminenti funzioni del prezzo. Così seguendo la catena del valore, questa si sviluppa nella misura in cui è in grado di coniugare tanto le maggiori pretese dei consumatori come il profitto dei produttori, il risultato non può che avvenire attraverso un costante incremento della ricchezza prodotta. Il vecchio adagio del “gioco a somma zero” dove dietro uno che vince c’è sempre qualcuno che perde, tanto caro all’economia mercantile, è completamente avulso all’economia di mercato, ed è uno dei pregiudizi più diffusi – assieme alla stigmate associata alla ricchezza intesa come furto – tra i tanti detrattori contemporanei del capitalismo. Alla stessa stregua la moneta, non è lo sterco del diavolo, bensì il medium non solo per favorire lo scambio, ma l’elemento che incorpora la costante crescita di ricchezza attraverso l’incremento del potere d’acquisto, così come lo stato è il distruttore per eccellenza della ricchezza nella misura in cui stampa moneta a prescindere dai suddetti vincoli intrinsechi alla creazione del valore. In questo contesto lo stato democratico americano non ha più nulla del Dominus preposto a vigilare sui sudditi ma è un organismo in costante trasformazione, capace di fornire agli individui la sicurezza necessaria per seguire la proprie vocazioni, garantendo il giusto grado di libertà conforme al contesto, necessario ad ognuno per esercitare le proprie scelte nel mercato sia come produttore che come consumatore. Certo il termine “sicurezza” si è decisamente ampliato dai tempi di Emerson, soprattutto perché il cambiamento preteso da ogni individuo per produrre sempre più ricchezza richiede costantemente maggiore: salute, istruzione e sostegno in caso di disoccupazione involontaria. Questa necessità di dover creare un numero costantemente maggiore di beni comuni per favorire la continua crescita di ogni libera individualità e con essa di una società sempre più ampia e interconnessa, è una delle questioni più dibattute e controverse e tuttora maggiormente divisive anche tra i liberisti. Non solo da Bismarck in poi questi “beni” sono diventati un mezzo tanto per i partiti “destri” che per i “sinistri” per ricreare clientele da ancien régime per mezzo di uno stato grande e invasivo, capaci di permettere alle suddette “solo nominali” diverse elite di mantenere il potere; ma ha illuso anche la parte liberale a credere che bastasse invocare il laissez faire per ricreare un mercato ben funzionante. Eppure basta mantenere la produzione di questi nuovi bene comuni nel solco della competizione tra più soggetti offerenti, selezionati dal naturale pluralismo di valori esercitato dai consumatori sovrani, per evitare sprechi e favoritismi, volti a raccogliere consenso e poteri nelle mani di gruppi organizzati. Certo trattandosi di beni comuni è necessario farli arrivare attraverso la fiscalità in dose sempre crescente – di pari passo con lo sviluppo tecnologico e la conseguente richiesta di cambiamento che questo implica – ad ogni cittadino; ma il vantaggio è tale in termini di incremento di ricchezza che tale prelievo risulta più che ripagato a chi lo sopporta da uno sviluppo sociale senza precedenti. Sviluppo ampliamente dimostrato dai numeri in termini di ricchezza, speranza di vita e aumento della popolazione, registrato negli ultimi due secoli e mezzo. Il mercato è chiaramente un meccanismo estremamente raffinato e articolato, quando non funziona o crea favoritismi o monopoli – ad eccezione di quelli imposti dalla natura – sono il risultato dell’attività di fazione coalizzate, attraverso l’uso distorto del potere statale, che si impossessano di più ricchezza di quanto il libero gioco delle forze in campo permetterebbe loro di avere, andando ad inficiare il meccanismo di creazione del valore che sottendiamo con la parola mercato. Tuttavia il mercato, come l’individuo, come lo stato, non è un “meccanismo” che va da se, né una “téchne” che orienta e regola l’azione, ma un “organismo vivo” in continua evoluzione e mutamento, che impara e si evolve attraverso i propri errori, tenuto in costante tensione da ogni individualità quale prodotti in fieri di quella libertà di cui gli Stati Uniti sono non a caso la Patria.

  • Conclusioni

Mentre nell’Europa degli anni 50 dell’Ottocento ci si divideva tra hegeliani di destra e hegeliani di sinistra, Emerson nel Nuovo Mondo ragiona già con categorie filosofiche allora assolutamente inattuali che ancora oggi faticano a prendere piede nel vecchio mondo, che sono tuttavia marchio indelebile di modernità: pluralismo e mutamento. L’individualista emersoniano non corre dietro a nessuna verità, qualunque collocazione filosofica abbia, si accontenta di avvicinare il più possibile la sua esistenza alle sue idea, non solo non pretende di imporle ad altri ma è ben consapevole che queste cambiano in lui come le fasi della sua vita; la storia non ha alcuna esse maiuscola, è piuttosto la risultante di infinite e per tanti versi casuali vicende biografiche individuali. I continui trade-off a cui ci costringe continuamente la democrazia e il mercato per conquistarci sempre più spazi di libertà, di beni o lavori che ci rappresentano, non sono, come ritengono coloro che continuano a ragionare con categorie ottocentesche, una diminuzioni della nostra individualità o tradimenti delle proprie convinzioni. Al contrario proprio gli inciampi, le debolezze, gli errori, la possibilità di correggere attraverso il confronto ma anche la competizione col prossimo, restano l’unica garanzia di un effettivo esercizio di quelle libertà individuali – spesso precluse proprio da “quei buoni e giusti” che vorrebbero ergersi a garanti – altresì sempre disponibili e contendibili da chiunque voglia spendersi per conquistarle, in un gioco senza fine e senza fini se non l’intrinseca tendenza ad affermarsi e realizzarsi insita in ogni singola vita.