CAPITOLO SECONDO – LA RIVOLUZIONE METODOLOGICA –

2.1 Introduzione

Se per la rivoluzione epistemologica si può parlare di presupposto alla nascita della cultura liberale, è quindi stato possibile riflettere sulla sua influenza solo ex post, la rivoluzione metodologica viceversa, sin da subito è stata al centro della speculazione dei più importanti pensatori liberali. Tutti gli autori liberali condividono, magari con diverse sfaccettature, la profonda distinzione che separa le scienze sociali dalla scienza della natura. In particolare, vi è la comune consapevolezza di non potere utilizzare il marchio di fabbrica di scienze come la fisica e la chimica, il metodo sperimentale. La complessità dei fenomeni sociali ed il loro enorme numero di variabili non permettono allo scienziato sociale, come ad esempio accade al fisico, di isolare poche relazioni causali e di analizzare gli effetti prodotti da una variabile su quel fenomeno circoscritto, per confermare o, come dirà Popper, confutare la teoria oggetto dell’esperimento. Sarà proprio l’assunzione del carattere eminentemente soggettivo dell’agire umano, e pertanto individuale, ad aprire la strada a due fecondi campi di ricerca e far uscire le scienze sociali dallo scimmiottamento delle scienze naturali per arrivare a fondare una nuova autonoma metodologia. Il primo campo di ricerca di natura più generale che, per così dire, si interroga sul senso e sui presupposti che hanno reso possibile la nascita e l’evoluzione dei grandi fenomeni collettivi, come il linguaggio, le istituzioni economiche, politiche e giuridiche su cui si fonda la vita sociale, senza per questo cadere in spiegazioni di natura trascendente o storicista, pone la base comune di quei fenomeni nei tratti “non intenzionali” dell’azione umana che rafforzano il perdurare di quelle istituzioni a prescindere dal destino e dal disegno dei singoli. Non meno ricco di risultati il secondo filone di ricerca, concentrato invece sulla natura individuale dell’azione umano, in particolare sulla struttura che caratterizza e distingue l’agire umano sempre cosciente del fine perseguito, da quello di ogni altro essere vivente. Qui come vedremo l’azione umana anziché essere analizzata attraverso strumenti matematici che la quantificano per darle un ordine in una scala che le accomuna, sarà oggetto di descrizioni volte a qualificarle per stabilirne il cardine che la distingue dalle altre e al contempo le legano indissolubilmente ad un preciso soggetto agente in un determinato tempo e luogo.

2.2 Breve premessa storica

Il primo a riflettere sullo specifico status metodologico che separa le scienze sociali da quelle naturali è uno dei fondatori assieme Jevons e Walras della rivoluzione marginalista, Carl Menger, le cui opere in campo economico, pubblicate praticamente in contemporanea, hanno permesso all’economia classica di uscire dalle secche in cui l’aveva lasciata la teoria ricardiana del valore-lavoro. Sempre in quegli stessi anni sarà proprio l’incapacità di risolvere il paradosso del valore a condurre l’economia classica e i suoi più eminenti epigoni, John Stuart Mill e Karl Marx, il primo ad abbracciare la nascente filosofia socialista e il secondo a fondare il comunismo rivoluzionario. Mentre la rivoluzione marginalista rappresenta il comune denominatore dell’economia poi ribattezzata “neoclassica”, saranno invece proprio le ricerche metodologie di Menger a contraddistinguerlo e separarlo dagli altri due cofondatori, ricerche in seguito proseguite dai più brillanti allievi della terza e quarta generazione, Mises e Hayek, a diventare il carattere definente della cosiddetta “scuola austriaca”. Non si tratta però solo di etichette, questo rigore metodologico, come vedremo, salverà l’economia neoclassica di matrice austriaca dall’influenza di J. M. Keynes, in particolare dalla sua scelta di rilanciare il ruolo dello stato in economia in risposta alla crisi del laissez faire e alle derive totalitarie protagoniste del Ventesimo secolo. Riportare lo stato al centro delle scelte economiche, non solo significherà corrompere il sistema di determinazione dei prezzi, ma inevitabilmente avvicinerà, dopo la morte di Keynes, i keynesiani a una visione economica socialisteggiante. Nel terzo capitolo affronteremo le profonde divergenze economiche tra le due impostazioni, per ora basti evidenziare che proprio la comune radice neoclassica è alla base della confusione intorno all’aggettivo liberale e al liberalismo in genere. Per chi scrive: liberalismo, liberismo e liberale sono inseparabili dall’economia neoclassica di matrice “austriaca” a cui va il merito, dopo una battaglia solitaria durata quasi sessant’anni, di aver salvato e rilanciato quella tradizione prima messa a dura prova dai totalitarismi di vario colore, poi dalla deriva statalista imboccata dalle maggiori democrazie occidentali uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale.

2.3 Individualismo metodologico

Il linguaggio, lo stato, il governo della legge, le leggi economiche, il sentimento morale di bene e di male, se non sono creazioni di un dio, di un disegno intelligente, non possono neppure essere opere di singole figure storiche. Un uomo per quanto eminente non ha né il tempo né le capacità cognitive, per fondare istituzioni il cui valore si potrà constatare appieno solo diverse generazioni dopo la sua morte. Carl Menger analizzando istituti economici come la proprietà o il denaro, seguendone passo passo il modo nel quale si sono evoluti e affermati, si rende conto di due condizioni dell’agire umano solo apparentemente contraddittorie. Ogni individuo non può mai rinunciare al proprio interesse, ai vincoli posti dalla sua condizione, nel perseguire agendo il proprio fine; purtuttavia, assieme a questo vincolo ogni azione contiene una propria valenza non intenzionale, un proprio carattere, che si afferma in funzione del successo riscosso da quel carattere nell’escogitare la soluzione più efficace per risolvere il maggior numero di problemi individuali. Quel tratto, via via che si afferma con successo nella società, acquisisce valenza collettiva e si radica attraverso un processo di astrazione tale da fargli assumere la forma di idea autonoma dagli individui che la praticano. Quest’idea si modifica e si affina man mano che se ne fa esperienza, ma solo la diffusione presso un popolo, un territorio, la fa diventare un costume, una tradizione. Quando gli intellettuali riflettono per fare un esempio in campo economico sull’istituto della moneta, sono passate decine di generazioni che nelle varie forme primitive ne hanno fatto esperienza. Certo quell’istituto risponde a esigenze individuali, ma è il carattere non intenzionale – ossia il successo che ottiene nel trovare soluzioni a bisogni diversi a volte in conflitto tra loro – a renderlo un istituto comune verso cui nessun individuo o anche comunità può vantare l’imprimatur. Prendiamo ad esempio per cogliere appieno questo punto proprio la moneta a lungo analizzare da Menger, inizialmente nella piccola comunità ci si pone il problema di superare i limiti dello scambio diretto e l’inevitabile conflitto tra i due protagonisti dello scambio che potremmo così riassumere: “come rendere possibile che il mio interesse verso un bene posseduto da un altro coincida con l’interesse dell’altro verso un bene posseduto da me?” Da questo ostacolo sorge l’intuizione che il modo più agevole di arrivare allo scambio sia di passare attraverso un bene intermedio, capace di raccogliere il maggior numero di bisogni presenti nella piccola comunità che funga da medio fra i due interessi che non si incontrano. L’animale da armento (pecus in latino, da cui il sostantivo pecunia oggi sinonimo di denaro), raccogliendo gli interessi di un alto numero di contraenti, sembra in quel contesto la risposta più adatta. Quando però il numero di beni scambiato aumenta, quando la comunità si allarga e il commercio si diffonde, sorgono due nuove esigenze: la necessità di dividere il bene intermedio per calcolare e comparare in modo più puntuale il valore dei diversi beni scambiati, e l’esigenza di portare nel modo più veloce e sicuro possibile l’intermediario che favorisce lo scambio in luoghi sempre più lontani. Sotto la pressione di queste nuove condizioni, si fa strada l’idea dopo diversi tentativi di utilizzare per quel ruolo i metalli preziosi, i quali, per usare una terminologia moderna, permettono un enorme aumento della loro funzione di valore di scambio a discapito di un più limitato valor d’uso, nessuno accumula monete d’oro per farne collane. Con le attuali carte di credito il processo di astrazione dell’idea di moneta giunge al termine, valor d’uso nullo valore di scambio potenzialmente infinito, e come possiamo constatare è passato un qualche anno dall’inizio dello scambio indiretto. Possiamo così concludere affermando che le scienze sociali, seppur prive di ogni possibile utilizzo del metodo sperimentale per spiegare le loro idee intorno all’evoluzione dei fenomeni sociali, hanno sopperito a questa mancanza attraverso un metodo di indagine riassunto dalla tradizione nel concetto di individualismo metodologico. Ossia lo studio dei modi attraverso cui l’individuo trasforma la sua vita, il suo habitat e la relazione col prossimo, elevandole da strumento, da “pagina bianca della Storia” direbbe Hegel, a chiave per il potenziamento della propria singolare esistenza, mediante la costruzione seppur non intenzionale di istituzioni comuni. Queste istituzioni – per le loro capacità di dare risposte più efficienti alle mille e disparate esigenze della vita individuale – diventano un vero e proprio propulsori dell’evoluzione sociale. Vale la pena evidenziare ancora una volta come individuo e libertà protagonisti della prima parte restino il marchio di fabbrica tanto della rivoluzione epistemologica descritta nel capitolo precedente, quanto della rivoluzione metodologica oggetto di questo capitolo.

2.4 Ordine spontane

Lo stesso Menger nell’analizzare il processo evolutivo di queste istituzioni sottolinea la differenza tra azioni con valenza collettiva non intenzionali, e le eleva ad unico oggetto delle scienze sociali, dalle azioni collettive invece intenzionali. Sempre lui metterà in guardia le future generazioni di scienziati sociali dalle crescenti interferenze esercitate da quest’ultime sulle istituzioni collettive, fenomeno poco significativo fino a quando la vita sociale si sviluppava in piccole comunità, ma poi decisamente più intrusivo con l’avvento dello stato e il suo potente apparato burocratico. A raccogliere il testimone e a dare una risposta compiuta al tema sarà F. A. von Hayek, il quale proprio partendo dalle osservazioni di Menger giungerà ad arricchire l’individualismo metodologico con il concetto di ordine spontaneo, liberando l’evoluzione e lo sviluppo delle istituzioni sociali dai pericoli corsi dalla medesime a causa delle interferenze e delle pressioni esercitate su di esse da parte di singoli o da piccoli gruppi fortemente coesi. Mentre i greci possedevano due termini: taxis per definire l’azione di gruppi finalizzata a raggiungere obiettivi comuni e limitati, ben distinto da cosmos: per descrivere le azioni necessarie a determinare l’organizzazione di fenomeni che vanno ben oltre gli interessi e i fini di una comunità limitata nello spazio e nel tempo. Viceversa, le lingue moderne non compiono questa distinzione, non si tratta però di una mancanza, per così dire, di precisione linguistica, ma di un vero e proprio vuoto concettuale. Con l’avvento delle grandi burocrazie statali, le modalità organizzative proprie della taxis riempiono quel vuoto, diventando l’unica modalità sociale organizzativa riconosciuta, così, tornando all’esempio del denaro caro a Menger, questo finisce per essere piegato al solo ruolo di fine limitato e contingente relativo allo scambio. Stampare denaro sarà magari utili a una fazione politica per vincere le elezioni ma deleterio per la sua funzione di istituto collettivo preposto a unità di misura del valore, il risultato sarà inevitabilmente una perdurante inflazione e con essa il discredito della suddetta funzione collettiva del denaro. La perdita del “cosmos”, di una visione complessiva, impedisce di vedere la fitta trama che lega il denaro ad altre istituzioni proprie dello scambio, la cui alterazione mette a repentaglio la sopravvivenza dell’intero sistema di mercato. Non si può non sottolineare in questo passaggio, l’enorme influenza esercitata su Hayek e prima su Menger di un altro dei grandi padri dell’illuminismo scozzese, Edmund Burke, laddove, nelle sue “Riflessioni sulla rivoluzione francese”, aveva stigmatizzato il pericolo di stravolgere apparati legislativi come le costituzioni, capaci di incorporare ragioni e motivi alla loro nascita così forti e pressanti da diventare nel tempo costumi e tradizioni che spesso poi – visto la distanza temporale che separa chi le aveva elaborate da chi le usa in un successivo momento storico – non saranno più neppure percepite e per questo sottovalutate dai futuri legislatori. Questo maldestro uso delle tradizioni fu per Burke la vera causa della degenerazione giacobina prima e della reazione termidoriana poi della Rivoluzione Francese. L’ordine spontaneo è la formula utilizzata da Hayek, volto a rafforzare l’individualismo metodologico di Menger, per descrivere il processo di formazione di istituzioni nate senza un fine intenzionale per rispondere a bisogni collettivi, espressioni dei modi attraverso cui la tradizione le ha consolidate e tramandate. Questa evoluzione è sempre in fieri, aperta al cambiamento, nella misura in cui questo saprà rinunciare a fini conclusivi, per questo ben lungi dalla nomea conservatrice e reazionaria affibbiata in modo troppo sbrigativo alle “Riflessioni” del Burke. Da questo punto di vista Hayek potrà affermare in modo perentorio, come farà nel poscritto a “La società libera”, che un liberale non può essere un conservatore. Un liberale è sempre propenso ad accogliere i mutamenti provenienti dalla società, entro però due precisi limiti: il rispetto delle tradizioni, da modificare in modo parsimonioso e graduale, e la consapevolezza della propensione all’errore insito nella ragione umana, la quale tende a sopravvalutare le sue capacità di comprensione e modifica della realtà. Non si tratta di difendere interessi costituiti, gli interessi del capitale come diranno i marxisti, ma di aver coscienza della complessità della realtà sociale e dei limiti intrinsechi ad ogni singola esistenza, senza per questo rinunciare alla formidabile ricchezza e unicità di ogni vita umana e agli enormi benefici che ognuna di esse può apportare al benessere comune.

2.5 Prasseologia  

L. von Mises erede di terza generazione di Menger, allievo di Bohm Bawerk in campo economico, affranca definitivamente la rivoluzione marginalista e il carattere soggettivo del valore da ogni reductio ad unum propria di ogni speculazione sul valore quali: valore-lavoro, valore-utilità, valore-rarità etc. Con lo stesso rigore del fondatore distingue il metodo delle scienze sociali, l’individualismo metodologico, dal metodo sperimentale in uso nelle scienze naturali. Non solo li separa, ma inibisce ogni tentativo di compromesso. Nota è la sua polemica sulla questione con K. R. Popper la cui filosofia della scienza ha a lungo tentato una ricomposizione delle due scienze, polemica alimentata anche dal tentativo di Mises di sottrarre all’influenza di Popper l’allievo prediletto F. A. von Hayek. Il suo contributo alla metodologia nell’analisi sociale non si ferma qui. Partendo proprio dall’azione umana, Mises concentra la sua ricerca sul carattere intenzionale, teleologico, tendente a un fine, proprio di ogni azione umana. Rimuovere il sentimento di disagio, perseguire il costante miglioramento della propria condizione, assieme alla crescente consapevolezza di mezzi rivolti a quel fine, sono una condizione comune e costante all’agire di ogni essere umana. Mises si spinge a chiamare “a priori” queste categorie dell’azione, come considera a priori la consapevolezza soggettiva di essere parte di uno spazio e di un tempo, nel quale le cose che scorrono e interagiscono, non possono che essere percepite in relazione causale dal soggetto senziente. Questa analogia di linguaggio con E. Kant, che ha avvicinato la posizione di Mises a quella del filosofo di Konigsberg, è stata a parere di chi scrive, fonte di enormi fraintendimenti. Certo “La critica della ragion pura” rimane uno straordinario esempio di rigore del pensiero, capace di fermarsi solo di fronte a quelle che Kant chiamerà le aporie della ragion pura, “la cosa in sé”. Purtuttavia, l’innovativa gnoseologia kantiana resta prigioniera della dialettica soggetto – oggetto, e quando si arriva alla ragion pratica, alla morale, il desiderio di riappacificarsi col mondo attraverso l’imperativo categorico espresso dal “tu devi” prende il sopravvento; così quel dualismo tra il cielo stellato e la coscienza morale viene ricomposto in forma stabile. Sarà a quel punto facile per Hegel prima, e per la successiva evoluzione marxista e positivista del pensiero hegeliano riportare per intero, per usare le parole del filosofo di Tubinga, il reale nel razionale e dare una forma compiuta e stabile al tutto. Kant, svegliato dal sonno dogmatica da Hume, non si libererà mai della metafisica, e la sua critica non coglierà mai la portata radicale del soggettivismo humano, il quale invece, affiancato dall’individualismo metodologico di Menger, diventerà parte integrante della gnoseologia di Mises. Per la prasseologia l’azione, proprio per le suddette condizioni a priori, è sempre soggettiva; definisce i confini dell’individualità, priva di ogni dualismo. Ogni azione è razionale, anche i pazzi perseguono un proprio fine, pertanto non esistono azioni irrazionali. Ogni azione è sempre economica non solo quelle dei business man, anche se vivessimo nel paese della cuccagna il bene tempo risulterebbe sempre per ognuno scarso, e quindi oggetto di economia. Ma per capire il punto di vista di Mises bisogna approfondire il significato di ciò che lui intende con il sostantivo economia. Per Mises l’altruista che pratica il dono non è meno economo di chi persegue un maggior benessere materiale, entrambi agiscono tendendo al fine di rimuovere un “disagio” il cui valore per la scuola marginalista, è per intero in capo al soggetto agente. Come non esiste la cosa in sé non esiste neppure un valore in sé, è il soggetto agente che attraverso le sue scelte esistenziali crea scale di valore in costante mutamento come la vita di ognuno. Non è un caso che tra le varie innovazione linguistiche di Mises vi sia proprio la sostituzione del termine economia, troppo legato alla realtà materiale e quindi al problema della scarsità e dell’utilità, con il più largo concetto espresso dall’etimo di derivazione greca contenuto nella parola catalattica; termine che include e comprende ogni tipo di scambio non solo quelli di natura economia. Il senso quindi dell'”a priori” di Mises ben lungi dall’idea kantiana di trovare per così dire un trasduttore, la famosa tavola delle categorie tanto vantata dal filosofo, capace di delineare in termini oggettivi, ossia veri e incontrovertibili, il mondo esterno. La critica di Kant si ferma all’ampiezza dell’oggettivazione, non mette certamente in discussione il processo in quanto tale. Per Mises viceversa a priori, nel senso di non mutabile e non desumibile dall’esperienza, è proprio solamente il tratto soggettivo dell’azione e per questo in perenne divenire, la quale assieme agli effetti non intenzionali formano la trama di ogni relazione di natura economica, politica giuridica e morale. Prasseologia e individualismo metodologico sono il cuore dell’approccio “austriaco” alle scienze sociali, e segnano anche la distanza e il grado di autonomia dalla scienza della natura.

2.6 Il fattore tempo

Le difficoltà di attenersi con rigore al metodo “austriaco” non si fermano qui, assieme all’esperimento risultano altrettanto inutilizzabili un approccio alle scienze sociali di tipo: storico, psicologica e finanche matematico. Occorre, prima di addentraci nei particolari, capire il diverso spirito con cui ci si avvicina alla ricerca sociale. Chi si appassiona allo studio dell’economia, della politica, del diritto e della morale, è sollecitato da problemi contingenti, il primo istinto di verificare come sono stati risolti in passato, ben presto lascia il passo ad un futuro a cui ogni soggetto agente non può che apportare il proprio originale punto di vista. Con le scienze sociali, l’elemento tempo, finora sterilizzato dalla fissità propria delle leggi naturali e proprio di ogni approccio storicista, viene colto nel suo carattere diveniente; per questo le scienze sociali si limitano a presagire e descrivere la direzione dei fenomeni oggetto di ricerca, mai queste descrizioni diventano puntuali previsioni. Questa esigenza di un diverso approccio alle scienze sociali è presente sin dalla loro nascita, tanto che la si può riscontrare anche nei due geniali fondatori della scienza politica, Macchiavelli e Guicciardini. Non si può che restare ammirati dalle raffinatissime descrizioni dei tratti dell’animo umano, di quel ricavar regole di condotta carpite dagli esempi del passato, di cui sono pieni i capolavori del Machiavelli. Viceversa, quella attenzione al “particulare”, a torto confuso da una certa critica con l’egoismo, quell’esaltazione della “discrezione”, nel senso di attenzione alle differenze presenti in ogni contesto sociale complesso, quel resistere dal farsi guidare nell’azione politica dalla “regula” tanto cara a Machiavelli, fanno del Guicciardini tra i due il vero genio della politica in chiave moderna. Tuttavia, lo stesso Machiavelli non era immune alla “discrezione” dell’amico, si pensi alla presunta contrapposizione tra l’esaltazione della repubblica dell’autore dei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”, dell’allora segretario della repubblica fiorentina, con la descrizione dei caratteri necessari per essere un buon “Principe”, oggetto del trattato omonimo in pieno dominio mediceo. Da questa apparente incoerenza tanta critica si è fermata ad una condanna moralistica del genio politico di Machiavelli. Così anziché vedere in quella scelta il dramma di un politico tanto consapevole dei suoi mezzi quanto determinato a perseguire ad ogni costo gli ideali di una vita, cosciente che l’insegnamento della storia deve sempre fare i conti con il presente se vuole incidere sul futuro. Questo pregiudizio ha fatto sì che il nome del Machiavelli prima venisse archiviato dai più, per poi passare col tempo da primo geniale precursore dell’unità d’Italia ad aggettivo tutt’altro che lusinghiero, sinonimo di opportunismo e mancanza di ideali. Tornando agli “austriaci”, proprio quell’attenzione metodologica ha impedito loro di cadere nei circoli viziosi delle scienze esatte, tanto precise quanto inconsistenti nella descrizione dei fenomeni sociali. Si pensi al Walras, fondatore con Menger del marginalismo, convinto che quantificando attraverso le equazioni differenziate le variabili economiche che hanno guidato le passate scelte di produttori e consumatori, sia possibile immaginare su quel presupposto altrettanto statici equilibri per le scelte future. Certo le equazioni differenziate in termini formali sono perfette, tuttavia incapaci di spiegarci alcunché sui motivi che hanno indirizzato quelle scelte compiute da soggetti diversi in contesti mutati e guidati da altri giudizi di valore. Ma lo stesso vale per le raffinate interpretazione degli accadimenti storici o le motivazioni psicologiche che muovono le scelte di un determinato personaggio storico, altrettanto insufficienti per spiegare e determinare le scelte compiute dal politico chiamato a decidere sul futuro. Certo tutte queste conoscenze sono utilissime nella formazione della personalità, indubbiamente questa ne sarà arricchita e influenzata nelle scelte future a cui sarà chiamata; ma l’azione umana, e a maggior ragione se compiuta da personalità eminenti, esprime sempre un quid individuale che nessun passato potrà mai contenere. Proprio questa propensione verso il futuro insita nell’azione umana è l’oggetto delle scienze sociali, e può essere affrontato solo entro i limiti posti dal suddetto rigore metodologico. Ad esempio, un aumento della quantità di moneta, restando immutati tutti gli altri fattori, certamente porterà a una riduzione del potere d’acquisto, tuttavia, quando questa avverrà e in che misura non è dato sapere. Un fenomeno sociale può essere descritto solo in termini cardinali o qualitativi dirà Mises, non è mai computabile quantitativamente in ordini misurabili dalla matematica. Quando le scienze sociali non si fermano di fronte a questi limiti, si apre la via a quella che lo stesso Mises ha chiamato polilogismo: primo sintomo di inquinamento del dibattito politico democratico, le cui derive se non curate per tempo trasformano la ricchezza e la varietà peculiare di ogni ordine sociale democratico in un sistema totalitario. Il polilogismo è la credenza che la logica che guida l’agire umano anziché essere comune e a priori, e proprio per questo all’origine di ogni successiva diversità, sia il risultato di differenze di nascita legate alla “classe”, “alla “nazione”, o alla “razza” di appartenenza. Le inconciliabili differenze conducono le diverse fazione ad una guerra per la supremazia senza esclusione di colpi, qualunque colore prevarrà a restare immutato in questo genere di scontri ne è l’esito totalitario.